Christo si è fermato a New York

È morto a 84 anni l'artista noto per i suoi «impacchettamenti» di monumenti ed edifici

Christo Vladimirov Javacheff, noto come Christo
Flaminio Gualdoni |

Christo Vladimirov Javacheff, noto come Christo, artista bulgaro ma statunitense d'adozione, noto per i suoi «impacchettamenti» di monumenti ed edifici, è morto domenica 31 maggio per cause naturali nella sua casa di New York. Nato nel 1935 in Bulgaria, l’artista nel 2016 aveva realizzato l’opera The Floating Piers nelle acque del Lago d’Iseo.

Lo ricordiamo con un articolo di Flaminio Gualdoni pubblicato nel «Giornale dell'Arte» n.365 di giugno 2016.

E Christo convertì l'artista: il creatore è un imprenditore

L’autore non è più un oggetto del mercato, bensì il soggetto di un’economia dell’arte dal profilo atipico: l’opera non è possedibile né durevole, se non attraverso i documenti tramutati in feticci


Christo, bon gré mal gré, dal 1958, quando realizzò le «Packed Bottles», è colui che impacchetta. Da quell’opera ha preso avvio un viaggio del tutto straniato nell’idea di monumentale che l’artista di origine bulgara (1935) ha applicato a manufatti di forte valore iconico («wrapped» sono stati, tra l’altro, le Mura Aureliane di Roma nel 1974, il Pont-Neuf di Parigi nel 1985, l’intero Reichstag di Berlino nel 1995), facendo mostra di considerare l’ambiguità tra codice estetico, stereotipo e identità fisica uno dei nuclei fondanti del proprio percorso.

Quando con «Wrapped Coast» (1969), realizzata alla Little Bay di Sydney impacchettando due chilometri e mezzo di costa, la sua operazione visionaria e ossessiva prende a misurarsi con una esplicita dimensione ambientale, Christo mette in gioco il non meno problematico concetto di bellezza naturale, a proposito della quale operare sulla subdola mitizzazione estetica, cartolinesca, turistica, da National Geographic, che ci abita. Qui l’artista, che dal 1961 lavora in copia con la moglie Jean-Claude, scomparsa nel 2009, chiarifica che il cuore della sua modificazione degli statuti correnti agisce per paradosso, come strategia intorno all’intendimento e alla ricezione da parte del pubblico.

L’idea di opera d’arte, di monumento, di paesaggio naturale, e l’esperienza che da tale idea ci attendiamo discenda è in effetti la questione, in perfetta eredità duchampiana. Da un punto di vista soggettivo Christo immette una gamma ulteriore di riflessioni: a cominciare dall’ambiguità ricca di implicazioni del suo stesso ruolo di artista imprenditore, il quale assume e annette a un discorso d’arte logiche, pratiche, modalità, metodologie che appartengono per appannaggio storico alle tecniche «utili», l’ingegneria in testa. Da tale punto di vista il processo di messa a punto della sua operatività, non più solo wrapping, è rappresentato dal «Valley Curtain», realizzato tra il 1970 e il 1972 a Rifle, in Colorado. L’effetto visivo prodotto dalla grande vela di nylon arancione tesa tra i declivi della gola presenta due livelli almeno di lettura.

Da un lato è l’impatto spettacolare, che modifica il contesto naturale con un’immissione violenta, perché assai connotata sul piano estetico, e insieme dolce, dal momento che imprime una modificazione non irreversibile allo scenario ambientale. Christo sovrappone e integra, con effetto di amplificazione, la monumentalità artificiosa della propria struttura (e molta parte vi ha il vento, ovvero un altro protagonista naturale) e quella retorizzata della valle, oggetto di una banalizzazione visiva (Baudrillard parlerebbe di «meretricio dello sguardo»)  che ne ha ridotto i connotati a schema convenzionale e logoro di un’idea, essa sì artificiosa, di panorama naturale.

A un altro livello, diviene fondamentale l’impresa, il lavorio tra tecnologia (ivi compresa la costituzione di un articolato e vasto staff a tutti gli effetti imprenditoriale), burocrazia, questioni legali, copertura economica, sino a trasformare, aspetto assai interessante, gli stessi progetti in sorte di certificati azionari dell’impresa, che fa dell’artista non un oggetto del mercato, bensì il soggetto di un’economia dell’arte, e non solo, dal profilo fervidamente atipico: l’opera in sé non è possedibile da alcuno, è provvisoria, e sopravvive fondamentalmente come mito e tòpos memoriale, in ambiguo rapporto con i documenti (da taluno a loro volta feticizzati: e anche questa è perfetta interpretazione duchampiana) che ne restano: le foto, i libri eccetera. «Valley Curtain» funge da premessa all’operazione esemplare soprattutto in quanto laicizzazione critica dell’artista come imprenditore d’un sogno, alla quale Christo pone mano subito dopo, il «Running Fence».

Realizzato tra il 1972 e il 1976 a segnare del proprio passaggio le contee di Sonoma e Marin, in California, per un totale di 39 chilometri e mezzo di nylon bianco alto cinque metri teso a vela, il lavoro, effimero perché destinato a una rapidissima distruzione, ha un costo complessivo di tre milioni di dollari: è titanismo bilanciato dalla perfetta, assaporata inutilità dell’operazione. Giunto a tal punto Christo non può non rilanciare, concependo progetti ancora più ambiziosi tanto in termini dimensionali quanto complessivamente imprenditoriali. Egli può ora far conto sul capitale simbolico accumulato, una notorietà internazionale che gli guadagna solidarietà e per certi versi può facilitarne i progetti: e ciò induce una vena di spettacolarizzazione, di accondiscendenza verso l’apparato mediatico del quale è in parte protagonista ma in parte anche regista.

È il caso, ad esempio, delle «Surrounded Islands» cui lavora tra il 1980 e il 1983 a Biscayne Bay, Florida, circondando undici isolette con polipropilene rosa galleggiante secondo modalità non dissimili da quelle adottate in seguito per l’ancor più ipertrofico «The Umbrellas», 3.100 ombrelli giganti gialli e blu distribuiti lungo diciannove chilometri in Giappone e lungo ventinove in California, e ancora in «The Gates», 7.053 porte-stendardo zafferano d’umore orientale al Central Park di New York: sino agli odierni «Floating Piers» sul Lago d’Iseo, 70mila metri quadri di telo giallo poggianti su un sistema modulare di pontili galleggianti a far da passerelle sull’acqua. Sempre più complessi e spettacolari, sempre più «belli» ma, va detto, sempre meno concettualmente arditi.

Dal 18 giugno al 3 luglio, l’intervento «The Floating Piers» consentirà così di camminare sulle acque e sulle sponde del lago lungo un percorso circolare di 3 chilometri che collega Sulzano a Monte Isola fino a includere l’Isola di San Paolo. Nel frattempo, fino al 18 settembre, il Museo di Santa Giulia di Brescia ospita la mostra «Christo e Jeanne-Claude. Water Projects», curata da Germano Celant con l’artista e il suo studio, che riunisce per la prima volta oltre 150 tra studi, disegni e collage originali, modelli in scala, fotografie dei progetti realizzati, video e film relativi ai monumentali progetti legati all’acqua dal 1961 ad oggi.

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