Chiusi ma aperti | Il Museo Stibbert
In esclusiva per il Giornale dell’Arte, il direttore Enrico Colle ripercorre la storia di uno dei luoghi più affascinanti e inaspettati del collezionismo italiano di fine Ottocento

«Una grande scuola d’insegnamento artistico per le generazioni future»: con queste parole Alfredo Lensi, il primo direttore del Museo Stibbert, dopo la morte del suo fondatore nel 1906, concludeva un articolo, pubblicato sulla rivista «Emporium», incentrato sulle ricche collezioni del nuovo museo fiorentino da poco aperto al pubblico.
Nello scritto Lensi metteva giustamente in evidenza lo spirito che aveva animato Stibbert nella creazione delle sue raccolte d’arte e degli ambienti che le avrebbero ospitate e cioè di attuare a Firenze «ciò che l’Inghilterra aveva fatto col Museo di South Kensington e la Germania coi suoi musei d’arte industriale».
In effetti il museo si presentava ai visitatori e agli studiosi d’inizio secolo come un inesauribile repertorio di opere di pittura, scultura e arte decorativa esposte secondo l’estro fantasioso e accattivante del suo fondatore il quale, mano a mano che acquistava gli oggetti che dovevano incrementare le collezioni, progettava contemporaneamente, insieme ai suoi architetti e decoratori di fiducia, anche la creazione e la decorazione degli spazi che avrebbero dovuto accoglierli.
Il Museo Stibbert è uno dei luoghi più affascinanti e inaspettati per tutti coloro i quali volessero affrontare il tema del collezionismo italiano di fine Ottocento e, insieme approfondire lo studio dei costumi civili e militari europei.
Nato nel 1838 da un alto ufficiale inglese e da madre fiorentina, erede di una grande fortuna, Frederick Stibbert si dedicò a studiare e raccogliere gli oggetti significativi del divenire storico, primi fra tutti le armi. Il clima culturale di Firenze, tutto rivolto alla celebrazione dei fasti antichi e in cui era attiva una numerosa colonia inglese, fu particolarmente consono agli interessi di Frederick, alle cui rievocazioni storiche non mancò mai di partecipare.
Ma i suoi interessi andarono ben oltre i limiti della cultura cittadina. Affascinato da civiltà diverse e lontane, dal Medio Oriente all’allora misterioso Giappone, mise a confronto i nostri con i loro diversi modi di combattere e di vivere, con intuizioni moderne e tuttora valide.
Agenti che operavano in tutto il mondo gli permisero di scegliere gli oggetti più belli, curiosi o interessanti e uno stuolo di artigiani fiorentini al suo servizio fu incaricato di restaurare e ridare vita ai pezzi più significativi radunando così una collezione che, alla sua morte, nel 1906, fu valutata comprensivamente di ben 36.000 pezzi, già disposti secondo percorsi didattici ed evocativi nella casa da lui disegnata e strutturata per questo scopo.
La villa che Stibbert possedeva alle pendici dei colli fiorentini fu infatti da lui stesso trasformata sia secondo il gusto neogotico allora in auge in Toscana, sia seguendo i vari revival stilistici presenti in gran parte dell’architettura e della decorazione d’interni della seconda metà dell’Ottocento. Le decorazioni ispirate al Medioevo servirono così da scenografico fondale alla collezione delle armi e armature europee come quelle ricavate dagli ornati moreschi furono utilizzate per ambientare la collezione Islamica.
Non meno suggestiva si presenta la sezione dedicata al Giappone, con i suoi guerrieri colorati e fantastici e l’estrema eleganza delle vesti e degli arredi. Oltre alle armature, armi e bardature di cavalli, la collezione comprende bronzi, costumi, lacche tanto da farne, per la sua ricchezza e qualità dei pezzi, una delle più importanti al mondo fuori dal Giappone.
Stibbert infatti amò soprattutto collezionare ciò che era attinente alla persona e ne formava l’immagine come appunto le armature e le vesti. Proprio a tal fine egli acquistò, oltre ad una cospicua raccolta di abiti antichi, importanti dipinti che meglio illustrassero la storia del costume e delle armi.
Anche gli arazzi che decorano le pareti della villa furono scelti con lo stesso criterio illustrativo, mentre la raccolta di cuoi seicenteschi impressi e dipinti, che Stibbert usò per abbellire le pareti della sua casa museo, i mobili, le maioliche, le stoffe, i parati sacri e infine i libri possono essere intesi come una sintesi del suo intenso lavoro collezionistico di tutta una vita.
Dopo la morte del suo fondatore il Museo Stibbert fu aperto parzialmente al pubblico e la «grande scuola d’insegnamento artistico» vagheggiata da Lensi non ebbe mai vera vita. Solo a partire da 1977, con la direzione di Lionello Boccia, il Museo fu riportato al centro degli interessi culturali cittadini. Boccia infatti lo dotò di un moderno sistema di illuminazione e di allarme, di un nuovo percorso museale, più rispettoso delle volontà testamentarie di Stibbert, e delle aspirazioni di un gruppo di studiosi che, anche a livello internazionale, iniziarono a catalogare e studiare le opere d’arte ponendo così le basi per trasformare il Museo in quel centro di studi che era stato nelle originarie intenzioni di Stibbert.
Tale linea è stata portata avanti in anni più recenti da Cristina Piacenti e dallo scrivente che hanno avviato una ulteriore campagna di restauri degli ambienti e di ripristino degli arredi delle sale. Anno dopo anno gli interni del Museo stanno infatti riprendendo, come è accaduto negli Appartamenti reali di Pitti, la loro fisionomia restituendo un’immagine del gusto internazionale del suo fondatore.
Così oggi per chi volesse documentarsi sull’evoluzione del gusto per la decorazione d’interni a Firenze durante la seconda metà dell’Ottocento, sia le residenze di corte toscane che il Museo Stibbert, entrambi riallestiti secondo rigorose indicazioni inventariali, offrono ora una inestimabile fonte di notizie e ci restituiscono una visone corretta di quella cosmopolita cultura tipica delle grandi capitali della seconda metà dell’Ottocento, dove innovazione e storia passata convivevano in assoluta armonia.

