Che fine farà la mia collezione?

Numerosi collezionisti privi di eredi diretti sognano una condivisione con la collettività. I musei pubblici sarebbero lo sbocco naturale, ma spesso non sono attrezzati o sono bloccati da lacci burocratici. C’è chi fa autocritica: «Un futuro per la mia collezione? Non sono così presuntuoso»

Una veduta della mostra «Così fan tutti» (2021), Villa Campolieto, Ercolano, con le opere della collezione di Ernesto Esposito
Ada Masoero |

Qual è il rapporto oggi in Italia tra i musei di arte moderna e contemporanea e il collezionismo privato? Controverso. È un rapporto, si potrebbe dire, di «odi et amo», a causa della necessità, per tali musei (specie nel contemporaneo), di arricchire le proprie collezioni grazie all’apporto dei privati, essendo l’investimento pubblico insufficiente, e, d’altro canto, delle loro obiettive difficoltà nell’accettare le donazioni o i depositi dei collezionisti a causa dei lacci burocratici, degli spazi insufficienti, degli organici spesso carenti.

Sebbene non manchino casi virtuosi come quello della collezione della VAF Stiftung, la Fondazione di Volker e Aurora Feierabend (di qui l’acronimo), lei italiana, lui imprenditore tedesco di gran successo basato da sempre in Italia e innamorato della nostra arte. La Fondazione ha conferito in comodato al Mart di Rovereto i capolavori della sua superba raccolta di arte italiana del ’900 (da Medardo Rosso a Balla, Carrà, Russolo, Severini, da Casorati a Campigli, de Chirico, Savinio, Pirandello, e altri autori meno noti ma non meno innovativi, tutti rappresentati qui al meglio), affidati alle cure di Daniela Ferrari.

Ma non solo, la Fondazione, istituita nel 2000 a Francoforte, ha siglato ben presto con il museo italiano inaugurato nel 2002 (e con Gabriella Belli in particolare, che ne è stata l’artefice e la prima direttrice) un rapporto di stretto partenariato, tanto da avere proprio al Mart la sua sede amministrativa e operativa in Italia. Insieme, museo e Fondazione promuovono mostre e pubblicano cataloghi e libri, in una collaborazione che dà ottimi frutti. Si tratta tuttavia di un caso unico in Italia.

Eppure nel nostro Paese sono numerosi i grandi collezionisti di arte del secolo scorso e del nostro tempo che spendono la loro vita in ricerche incessanti ed entusiasmanti («Un impagabile divertimento», dicono tutti) e che, per farlo, profondono capitali ingenti. Alcuni, sognando di poter condividere la propria collezione con la collettività, specie (ma non solo) se non ci sono eredi diretti cui lasciarla: coppie senza figli, omosessuali, coppie (perché il collezionismo è molto spesso una faccenda di coppia) i cui eredi non manifestano alcun interesse per l’arte e che dunque, alla loro scomparsa, disperderanno in vendite lucrose quella che, per chi l’aveva formata, era un’entità unitaria e viva.

Cortese e Pantaleone, galleristi «responsabili»
Un problema, questo, che tocca da vicino anche i galleristi: «Il destino delle collezioni d’arte private, spiega Raffaella Cortese, influente gallerista milanese di arte contemporanea, che affianca grandi collezionisti nel formare le loro raccolte, è un problema ovviamente condiviso anche da noi galleristi. Il nostro lavoro è fortemente intrecciato con questa tematica: quando una collezione matura nel tempo, raggiungendo un alto livello di prestigio, il destino a lungo termine delle opere è una preoccupazione urgente e necessaria del suo proprietario, oltre che del gallerista, che naturalmente si sente responsabile per i suoi artisti. Una delle soluzioni più generose, che evita la troppo frequente dispersione all’asta delle collezioni, è la donazione delle opere a una realtà museale. Ma, sebbene questa volontà arricchisca il patrimonio comune, oltre a rendere le opere accessibili al pubblico, sembra che la donazione (così come il comodato d’uso) sia una pratica, paradossalmente, lunga e difficile. Di qui la domanda: perché i musei e le istituzioni pubbliche danno difficilmente spazio alle collezioni private?».

Conferma Francesco Pantaleone, gallerista a Palermo e Milano, anche lui advisor di numerosi collezionisti: «Una collezione d’arte rappresenta l’identità di chi ha raccolto quei pezzi, uno statement della sua vita. È inevitabile che il collezionista si ponga degli interrogativi su che cosa succederà a quell’identità dopo il suo passaggio terreno. Ma cercare un’istituzione cui donare o istituire una fondazione che possa raccogliere questo lascito, in Italia, rappresenta un muro a volte invalicabile. Urgerebbero delle leggi che aiutassero la collettività a recepire queste collezioni, spesso importantissime».

Righi: il sistema dell’arte vero è quello pubblico
Della questione abbiamo parlato con alcuni importanti collezionisti che desidererebbero destinare al pubblico le loro raccolte o che, almeno in parte, l’hanno già fatto. Come Enea Righi, imprenditore di Bologna ormai votato quasi esclusivamente al collezionismo (un migliaio le opere della sua raccolta), che nel 2010 ha affidato, con un deposito di dieci anni, poi rinnovato per altri cinque, 150 sue opere a Museion, il museo d’arte contemporanea di Bolzano.

Fermamente convinto della funzione pubblica dell’arte, Righi ammette di avere «le idee ancora molto confuse riguardo al futuro della collezione. E altri come me, spiega, hanno lo stesso problema. Penso a prestiti a lungo termine, anche se mi sembra che molti musei non abbiano né desiderio né stimoli di ricevere opere dai privati. Penso ad esempio al MAMbo, il museo della mia città, che possiede tra l’altro una collezione permanente non all’altezza del museo stesso, ma che non si è mai voluto relazionare al collezionismo della città. Ammetto che la cosa m’infastidisce molto».

Un’alternativa potrebbe essere una sua fondazione? «Io ho una visione pubblicistica del sistema: il sistema dell’arte vero è quello pubblico. Le fondazioni private, a parte pochissime eccezioni, per lo più languono, hanno davvero poco senso. Bisognerebbe che il sistema museale affrontasse la questione. Sono stato per qualche anno nel Consiglio del MAMbo: ricordo che fu proposta una grande donazione, che fu però vissuta come un problema. Bisognava sistemare, catalogare, trovare lo spazio nei magazzini... In un sistema pigro come quello italiano, si trattava di un ostacolo. Che cosa farò della mia collezione? Ci sto ancora pensando. Credo molto nel rapporto tra pubblico e privato, ma va anche detto che i musei italiani hanno difficoltà a ricevere e accettare donazioni».

E i musei stranieri? «Certo, ci ho pensato e, se sarà necessario, si farà. Siamo nel periodo della globalizzazione, è vero, ma mi piacerebbe che le mie opere restassero in Italia. Anche dal punto di vista economico-finanziario l’arte contemporanea sarebbe per i nostri musei una grande risorsa: quando Giuseppe Panza di Biumo, nel 1984, vendette parte della sua collezione al MOCA di Los Angeles scoppiò uno scandalo. Oggi due di quelle opere ripagherebbero l’intero acquisto. Invece qui ci si arrabatta a notificare opere che non si potranno acquistare e si ignora il terreno vergine del contemporaneo».

Fasol: il rischio di donazioni «discutibili»
Il collezionista veronese Giorgio Fasol, fondatore nel 1988 con la moglie Anna dell’associazione culturale AGI Verona, dopo aver acquisito per anni opere di artisti poi «storicizzati» come Lucio Fontana, Piero Manzoni, Cy Twombly, Fausto Melotti, Giulio Paolini, Gilberto Zorio, Alberto Garutti, Anish Kapoor, Luigi Ghirri, tra gli ultimi anni ’80 e la fine dei ’90 ha puntato solo sugli allora giovanissimi Stefano Arienti, Maurizio Cattelan, Eva Marisaldi, Mario Airò, Jim Lambie, mentre dal 2000 a oggi sono entrati in collezione lavori di Subodh Gupta e Shilpa Gupta (Fasol è stato il primo italiano ad acquistare le loro opere, come pure di Tino Seghal e Ibrahim Mahama), Francesco Vezzoli, Simon Starling, Berlinde de Bruyckere, Susan Philipsz, Nari Ward, Lawrence Abu Hamdan e altri ancora, avendo da allora configurato la sua raccolta secondo un rigoroso taglio di ricerca.

Per questo, nel 2019 ha sottoscritto un contratto di comodato per cinque anni con l’Università di Verona, depositando 85 opere di giovani artisti internazionali in sei sedi dell’Ateneo scaligero, il cui nucleo centrale si trova nel (magnifico) Polo Santa Marta: «Non una semplice esposizione, spiega Fasol, ma un progetto di approfondimento interdisciplinare intitolato “Contemporanee/Contemporanei”, con la curatela di Denis Isaia, che coinvolge altre discipline (almeno, così si spera): teatro, letteratura, musica, filosofia, cinema, per offrire occasioni d’incontro e di conoscenza». Ogni opera ha un suo tutor-studente. Alcuni docenti si sono riuniti nel comitato «Contemporanea», per seguire e sviluppare il progetto, coinvolgendo gli altri Dipartimenti, la città, il contesto nazionale e internazionale.

«Gli studenti, continua Fasol, hanno creato dei video sulle opere e fatto visite guidate, e ogni anno si dovrebbero tenere tre talk e un convegno. Gli studenti saranno sempre i protagonisti ma, a causa della pandemia, è stato impossibile realizzare il tutto. Coinvolgere l’Università era la cosa migliore ai miei occhi. Due anni fa è cambiato il rettore (da Nicola Sartor a Pier Francesco Nocini, Ndr) e sono fiducioso che si possa riprendere in pieno l’attività e realizzare il progetto. Se manterranno fede agli accordi, abbiamo intenzione di donare le opere all’Università. Ma se ci renderemo conto che si tratta di un peso, allora le ritireremo. Ho anche una ventina di opere in deposito al Mart. Sto però riflettendo se lasciarle o ritirarle. Anche perché ho in corso un altro progetto con un ente importante, di cui è prematuro parlare, ma che potrebbe portare a sviluppi significativi. Del resto, i musei oggi sono (anche giustamente) restii ad accettare donazioni, avendone ricevute troppe a dir poco discutibili: si sono riempiti di cose mediocri e un deposito comporta spazi e costi di manutenzione».

La soluzione Antognini e il modello Guggenheim
È questo il nodo centrale: la mancanza di spazi. Tanto che Giuseppina Antognini, per oltre trent’anni compagna di vita e di collezionismo di Francesco Pasquinelli (1922-2011, milanese, maestro di musica, imprenditore di successo e collezionista raffinato di arte moderna), prima ancora di donare sei importanti opere di Boccioni, Severini, Sironi, Balla, de Chirico e Savinio (valore di mercato 15 milioni di euro) al Museo del Novecento di Milano, ha deciso di destinare 5 milioni di euro per promuovere la realizzazione del «Secondo Arengario» dello stesso Museo del Novecento.

«Io non sono partita con l’idea di fare una donazione di opere, spiega: al sindaco Sala e all’allora assessore Del Corno ho posto il problema della mancanza, a Milano, di spazi espositivi. Come si possono ricevere donazioni dai collezionisti privati, se non si ha lo spazio per esporle? Dunque, ho posto un problema più vasto: la necessità di realizzare il Secondo Arengario, e a questo scopo ho donato 5 milioni di euro. Sono partita dal contenitore e solo in seguito ho donato le opere. Per tutto, ho lavorato in squadra, in perfetta sintonia con il sindaco, l’assessore e l’allora direttrice Anna Maria Montaldo. Eppure, oggi, ai molti che mi chiedono come donare le loro opere a un museo, non so che cosa rispondere. Proprio perché gli spazi non ci sono». Ma Giuseppina Antognini va oltre: «Serve un movimento d’opinione allo scopo di creare (in questo caso a Milano) un grande museo sul modello del Guggenheim, che possa vendere, comprare, cambiare e accettare in dono le opere».

De Angelis Testa e il mecenatismo collettivo
Quanto a Gemma De Angelis Testa (insignita di recente del Premio Rinascimento+, promosso dal Museo del Novecento di Firenze e destinato ai collezionisti e mecenati attivi nel contemporaneo), collezionista milanese e fondatrice nel 2003, con un gruppo di altri appassionati, di Acacia Associazione Amici Arte Contemporanea Italiana (che tuttora presiede), ricorda di aver scelto da subito «di muoversi attraverso il mecenatismo collettivo del Premio Acacia, con il quale la nostra associazione dona ogni anno al Museo del Novecento di Milano una o più opere dell’artista italiano che in quel momento ci sembra essere il più significativo sulla scena (quest’anno Diego Perrone, con due lavori, Ndr). Sinora abbiamo donato 35 opere di 24 artisti italiani, costruendo con pazienza, in quasi vent’anni, un’importante collezione, che sarà destinata al futuro museo di arte contemporanea nella città di Milano, che purtroppo ancora manca. La speranza è di poter vedere la nostra collezione interamente esposta in questo museo. La creazione di questa raccolta è per noi una vera missione e il nostro mecenatismo collettivo ci ha permesso di partecipare attivamente alla scena culturale di Milano e di lasciare anche una traccia delle vicende artistiche e sociali degli ultimi anni. Il Premio Acacia, infatti, contribuisce anche a sostenere la carriera degli artisti italiani e del meccanismo che è alla base del sistema dell’arte».

Ma le istituzioni pubbliche sono sempre ricettive? «Pensando all’arte moderna, bisogna anche dire che lo Stato e la burocrazia non favoriscono i prestiti o la movimentazione delle opere d’arte. Anche quando, da parte di un collezionista, c’è la volontà di fare un lascito, ci s’imbatte in numerosi ostacoli e, come sappiamo, molti musei non hanno lo spazio sufficiente ad accogliere nuclei consistenti di opere. Al momento della nostra donazione, nel 2015, noi siamo stati fortunati nel trovare una Direzione aperta a un dialogo che si è sempre mantenuto nel tempo. Siamo l’unica associazione privata ad avere uno spazio riservato all’interno di un museo pubblico, nel quale, a rotazione, vengono esposte tramite focus monografici le opere della Collezione Acacia». Quanto alla sua collezione personale, «al momento preferisco non parlarne», ci risponde.

Esposito: colleziono per me e non sono eterno
Ben più veemente è Ernesto Esposito, imprenditore della moda napoletano, già amico di Lucio Amelio, da cui ha acquistato capolavori di Warhol, Beuys e di altri giganti del secondo ’900 (procedendo poi sino a oggi). Oltre a convenire sul fatto che in Italia «c’è troppa arte per gli spazi che abbiamo», Esposito torna, da par suo, sul tema della qualità delle donazioni. Lui che possiede una delle più importanti collezioni d’arte contemporanea d’Italia, afferma perentoriamente che «se si hanno opere importanti, di Warhol o di autori di pari livello, non c’è alcun problema: tutti i musei le accettano, e con entusiasmo. Conosco però collezioni inutili, quando non orrende: perché mai lo Stato dovrebbe farsene carico? Penso che l’idea romantica che la collezione debba rimanere ai posteri non abbia alcun senso. Se ogni persona che colleziona pensa di dover rendere eterna la propria collezione, allora c’è una stortura di fondo. Chi colleziona lo fa per soddisfare il proprio ego: io lo faccio per me stesso. Senza contare che non solo noi non siamo eterni, ma non è eterno nemmeno il nostro modo d’intendere l’arte. Quanto a me, ho sposato una persona più giovane per allungare l’orizzonte temporale, e sto realizzando uno spazio a Caserta per esporre parte della collezione. Ma non sono Giulio Cesare, né Napoleone: sono una persona normale cui è piaciuta l’arte. Perché devo pensare a un futuro? Di che? Di chi? È una forma di grave presunzione. Inoltre, sono dell’idea che la traccia la si lasci durante la vita, e io lo faccio continuamente con le mostre».

Sanguedolce e il ruolo sociale al Sud
Una precisa scelta di campo ha guidato sin dall’inizio, nel 2016, il progetto collezionistico di Carmela Sanguedolce, imprenditrice calabrese a capo di Sanguedolce Holding, gruppo basato a Crotone, attivo nella sanità, nell’immobiliare e, con Full Mind (con Accademie nazionali e Università), nella digitalizzazione, catalogazione e archiviazione di beni culturali (specie della fotografia). Come spiega lei stessa, ha scelto da subito di puntare sulla «valorizzazione della donna e dell’universo femminile quale protagonista della creazione artistica e, in misura minore, come soggetto di rappresentazioni e sguardi nati e concepiti per valorizzarne bellezza, importanza, significati sociali e culturali».

Della sua raccolta fanno parte lavori singoli o, più spesso, cicli di opere coerenti di artiste di oggi, come Yael Bartana, Monica Bonvicini, Simone Forti, Roni Horn, Joan Jonas, Kimsooja, Anna Maria Maiolino, Ana Mendieta, Kiki Smith, o del ’900, come Antonietta Raphaël, Florence Henri, Leonor Fini, Carol Rama, Ketty La Rocca e altre ancora, oltre a famosi fotografi. Ora, per sviluppare ulteriormente la sua raccolta, che al momento è ricca di oltre 400 opere di 52 artiste e (in misura di gran lunga minore) artisti, la collezionista sta istituendo la Fondazione Carmela Sanguedolce, curata da Martina Corgnati, che continuerà a essere mirata su «donna, corpo, ritratto (e naturalmente autoritratto)».

Intensificando al contempo la già vivace presenza in mostre e musei internazionali: «Nel prossimo mese di ottobre 2022, continua la collezionista, le opere di Meret Oppenheim appartenenti alla Fondazione Carmela Sanguedolce saranno oggetto di un evento dedicato presso l’Istituto Italiano di Cultura di New York, in concomitanza con la retrospettiva allestita al MoMA».

Sul tema del rapporto con i musei, Sanguedolce cede la parola a Vincenzo Facente, responsabile dell’Area Pianificazione Strategica della Sanguedolce Holding: «Le trasformazioni epocali in atto sollecitano le istituzioni culturali, gli artisti e i creativi a definire un nuovo “patto” che sancisca il loro ruolo unitario di attori di cambiamento e innovazione. La nostra giovane esperienza nel mondo del collezionismo ci vede coinvolti nello sviluppo di relazioni con i presìdi museali della nostra regione, la Calabria. Non è solo una scelta sentimentale, ma una rinnovata assunzione di responsabilità verso i giovani e le donne che sono nati o scelgono di vivere al Sud. È evidente che i collezionisti soffrono oggettive condizioni di svantaggio a operare in aree periferiche e di ridotta coesione sociale e qualità della vita. L’offerta museale pubblica nel Sud Italia è fondamentalmente incentrata su beni archeologici e arte antica, mentre risultano residuali gli spazi per l’arte contemporanea: un ritardo strutturale, questo, che sta determinando la ricerca di nuove forme di collaborazione tra sistema museale e collezionisti privati. In questo contesto, noi seguiamo con attenzione l’evoluzione della funzione urbana degli spazi culturali, con un impegno speciale nella creazione di insiemi multidisciplinari, capaci di cogliere diverse esigenze culturali, formative, artistiche, esperienziali».

Peola: rimane lo scoglio delle agevolazioni fiscali
Come ci rammenta il gallerista torinese Alberto Peola, nell’intera Italia restano, però, da affrontare anche il nodo fiscale e gli aspetti burocratici, molto farraginosi: «Non solo bisognerebbe ridurre al minimo la burocrazia ma, poiché quando un collezionista dona a un museo il bene va alla collettività, sarebbe anche giustificata una forte agevolazione fiscale. In realtà, in Italia, un’azienda è molto più avvantaggiata del privato, mentre negli Stati Uniti l’operazione è assai conveniente anche per i collezionisti privati. D’altro canto però, riconosce, non va dimenticato che la gestione del contemporaneo richiede spazi, depositi, impegno nella conservazione: tutti costi elevati per un museo, e anche questo è un aspetto da tenere in conto».

Olgiati: più cautela nell’accettare donazioni
Che cosa accade appena fuori dai nostri confini? Ci rispondono Giancarlo e Danna Olgiati, svizzero lui, avvocato internazionale; italiana lei, già gallerista di successo a Modena, poi a Milano, con la galleria Fonte d’Abisso. Loro, che vivono a Lugano, hanno già donato 80 opere della loro straordinaria collezione (dalle Avanguardie storiche sino alle nuove generazioni) al Masi-Museo d’Arte della Svizzera Italiana, e altre 200 sono incluse in una convenzione che le destina al Comune di Lugano in donazione e al Masi in gestione.

«Certamente, afferma Danna Olgiati, per i musei l’intervento dei privati è molto importante: le ricche collezioni di arte anche contemporanea dei musei della Svizzera tedesca (in particolare quelli di Zurigo e di Basilea) sono frutto, in larga misura, di donazioni. Va detto tuttavia che in quell’area culturale il rapporto pubblico/privato è tradizionalmente molto sentito e praticato. Purtroppo, non lo è altrettanto in Italia (e mi spiace doverlo dire perché io sono profondamente legata al mio Paese d’origine), mentre quest’aspetto andrebbe incoraggiato e valorizzato, per il bene dei musei. A parte l’inadeguatezza della legislazione che regola l’import-export di opere d’arte, che dovrebbe essere riformata con modalità più eque e più flessibili a favore dei privati, occorre però fare alcuni distinguo importanti, prosegue.

Innanzitutto, da parte dei musei è indispensabile una grande severità nell’accettare le donazioni. Si vedono spesso opere insignificanti, mentre la donazione o il deposito, per l’arte moderna, ha un senso solo se (come accade per esempio con la collezione futurista di Gianni Mattioli per il Museo del Novecento a Milano) va ad arricchire un patrimonio che già esiste. Anche più complesso, poi, è il caso del contemporaneo, che non solo richiede grandi spazi, ma si storicizza nel tempo: ci sono artisti che perdono di valore, altri che ne acquisiscono e la cautela è d’obbligo. Inoltre, oltre all’importanza delle opere, per essere donata e accettata da un museo, una collezione deve essere «attrezzata». Compito del collezionista è selezionare le opere più significative, che ognuno di noi conosce bene. Non solo: le collezioni devono rispondere a un progetto e, dato fondamentale, prima di essere donate, le opere devono essere perfettamente archiviate e ottimamente conservate. Acquistare è un piacere, un divertimento. Il lavoro inizia quando si vuole valorizzare la collezione
».

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