Canova, l’ultimo artista per i principi

La vita dello scultore di Possagno, raccontata in un volume di Francesco Leone, pare quasi uscita da un romanzo di Stendhal (che fu suo grande ammiratore)

«Le tre grazie» (1812-17) di Antonio Canova (particolare), San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage
Giovanni Pellinghelli del Monticello |

A volte la stucchevole banalità di luoghi comuni e frasi fatte viene superata da episodi che nella loro eccezionalità ne confermano la regola. Antonio Canova. La vita e l’opera (Officina Libraria), volume ponderoso e onusto di apparati bibliografici, note, regesto delle opere, indice dei nomi, dedicato da Francesco Leone allo scultore nel secondo centenario della sua morte, è un vero studio accademico che contro tutte le probabilità si legge come un romanzo. Sarà perché già nella sua semplicità e metodicità la vita di Antonio Canova appare essere stata romanzesca così da portarlo dal borgo veneto di Possagno, sulle colline trevigiane, a un tourbillon di altissime committenze politiche e mondane internazionali e a essere intimo dei grandi della terra.

E questo in un’epoca essa stessa romanzesca, quel primo Ottocento per cui Antonio quasi appare come essere uscito da uno di quei romanzi del tempo, ad esempio di Stendhal, che fu suo grande ammiratore e che di lui disse: «Tant que Canova existera, on peut acheter l’immortalité», citazione che appunto Francesco Leone pone in exergo di questa sua opera.

Epica la vita di Canova appunto fu, nonostante la normalità scandita da un intenso indefettibile e pianificato lavoro quotidiano e dalla creazione di opere per cui sempre bisognerebbe utilizzare il pur abusato e irritante termine: capolavoro (non esiste scultura di Canova che gli sia venuta mediocremente, la sua stessa natura gli imponeva la perfezione). E in più da tutti riconosciuto come uomo di adamantina onestà, incorruttibile.

Prova ne sia il fatto che, tramontata la napoleonica stella fra il campo di battaglia di Lipsia e i balli del Congresso di Vienna, a chi se non a Canova lo sfinito Pio VII e l’occhiuto cardinal Consalvi affidarono l’ingrato compito di riportare in Italia quei tanti capolavori che Napoleone aveva razziato soprattutto dagli Stati Pontifici dal 1796 al 1808. Questo spinoso incarico Canova seppe superbamente portare a compimento, restituendo all’Italia la stragrande maggioranza dei capolavori rapiti, grazie alle strette conoscenze se non addirittura vere amicizie che in quegli anni di suo grande successo aveva intrecciato con gli onnipotenti dell’epoca, da Talleyrand al Duca di Wellington (che anche finanziariamente lo aiutò nell’arduo intento).

Questo volume, dunque, al di là del valore di ricostruzione del percorso artistico di Canova attraverso lo studio analitico e completo delle sue opere, si segnala per la capacità di indicare il portato universale dell’opera canoviana che tanto rivoluzionò tecniche e concetti della scultura quanto condizionò l’intera evoluzione del concetto del bello.

Francesco Leone conferma come, in quell’esordio di Ottocento, che presto tutto avrebbe appiattito nel gusto borghese in cui tutto dell’arte si rattrappisce e i saloni vengono mortificati dai corridoi, i palazzi umiliati dalle case e le cattedrali diventano chiesette, Canova seppe riproporre forse per l’ultima volta furori e fulgori del ruggente Bernini e ancor più lo splendore delle antiche statue greche e romane: l’ultimo artista per i principi.
La copertina del volume
Antonio Canova. La vita e l’opera,
di Francesco Leone, 592 pp., 272 tavv. a colori, Officina Libraria, Milano 2022, € 45

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