Candice Breitz, se il dolore recitato commuove più di quello reale

Ospite della Palazzina dei Giardini a Modena con tre grandi videoinstallazioni, l’artista sudafricana nel suo lavoro attinge alla tradizione, servendosi della riconoscibilità delle icone per parlare di potere, patriarcato, ingiustizia, isolamento, sofferenza

Candice Breitz
Alessandra Mammì |  | Modena

Tra le molti ragioni per visitare «Never Ending Stories» (la mostra di Candice Breitz a Modena curata da Daniele De Luigi per la Fondazione Modena Arti Visive, fino al 18 settembre 2022) c’è anche la scelta del luogo e il confronto ravvicinato fra due epoche e due mondi. La bellissima palazzina voluta nel XVII da Francesco d’Este come luogo di giochi e divertimenti è ora abitata dalle tre grandi installazioni con le quali l’artista ha letteralmente invaso gli spazi scenografici e aristocratici, trascinano di colpo il visitatore dalle delizie di corte alla brutalità di una realtà contemporanea, qui proposta senza sconti.

Non è cosa neutra attraversare il parco e trovarsi poi all’improvviso di fronte all'ultimo lavoro di Candice Breitz: «Labour» ovvero «Travaglio». Radicale, crudo, spiazzante docufilm in sei schermi, installati ognuno nella sua cabina chiusa da tendaggi e protetta dallo sguardo pubblico. I cartelli avvertono che può scuotere la sensibilità e consigliano al solo pubblico adulto la visione a distanza ravvicinata di sei partorienti filmate in tempo reale. Un documento della forza muscolare, dell'energia psichica, del dolore, del sangue, del sudore necessari all'espulsione del feto e alla sua trasformazione in bambino.

Ma se la vista di una nascita per la nostra sensibilità appare tabù più forte della morte, ancora più sconcertante è lo stratagemma messo in atto da Breitz: il rewind che inverte il tempo e mostra il bambino risucchiato nel grembo della madre. Come a dire: non si nasce in un mondo dominato dai Putin, Trump, Bolsonaro, i dittatori a cui sono stati dedicati i filmati, leader autoritari che hanno negato diritti e cancellato le conquiste civili e umane delle donne (e non solo).
«Labour» (2017-) di Candice Breitz, installation view, «Never Ending Stories» (2022), Fmav - Palazzina dei Giardini, Modena. Foto Rolando Paolo Guerzoni
Dunque vien da chiedere «Signora Breitz crede che l’arte debba avere una funzione politica?». Ma la risposta alla domanda è già contenuta nel suo lavoro in tutte e tre le grandi  installazioni che rendono «Never Ending Stories» un esempio importante della poetica, della pratica e del pensiero di quest’artista nata a Johannesburg nel 1972 con la fortuna di essere bianca, benestante, privilegiata e parte di quell'8% di popolazione destinata a riprodurre la classe dirigente sudafricana e a dominare il paese allora segnato dall'Apartheid.

Com’è stato crescere lì? Quale è stata la sua formazione? Com’era la sua famiglia?
Candice Breitz si rifiuta di rispondere. Gentilmente, con un bel sorriso e massima cordialità, fa capire che è inutile insistere. Tutte le risposte sono nel lavoro e dunque se vogliamo parlare, parliamo di lavoro. Così sia.

Cominciamo a conversare nel parco che circonda la Palazzina dei Giardini, sede della mostra, circondate nell’idilliaco pomeriggio da mamme, bambini e amiche in passeggiata. Un paesaggio protetto, quasi irreale a confronto con la durezza e la verità delle storie che Breitz racconta proprio lì accanto, appena superato l’uscio della bellissima serra. Lei però non si lascia distrarre. Precisa, dirompente, con buona tecnica oratoria che le arriva anche dalle tante conferenze con le quali accompagna spesso le sue opere, Candice spiega come il suo lavoro affondi le radici nella tradizione, nell’usare l’arte, la potenza del suo immaginario, la riconoscibilità delle sue icone, per parlare di potere, patriarcato, ingiustizia, isolamento, sofferenza...

Partono da lì alcune delle sue più celebri installazioni come «Mother and Father» dove attraverso le sequenze di famosissimi film ritagliate in una serie di piccoli camei, attori famosi, da Meryl Streep a Dustin Hoffman, da Susan Sarandon a Donald Sutherland, dimostrano la rigidità dei ruoli, la gerarchia delle dinamiche famigliari, le costrizioni che definiscono il materno e il paterno nella cultura occidentale. Mentre i loro volti misericordiosi o piangenti per dovere di scena, strappati alla narrazione e incorniciati nel recinto dello schermo, diventano archetipi e s’iscrivono d’ufficio al Pantheon delle icone che punteggiano la storia dell’arte, dalle divinità greco romane alle sacre rappresentazioni cristiano-cattoliche.
«Love Story» (2016) di Candice Breitz, installation view, «Never Ending Stories» (2022), Fmav - Palazzina dei Giardini, Modena. Foto Rolando Paolo Guerzoni
È la sua arma: usare quella che lei chiama una «lingua franca», condivisa da tutti gli strati sociali, per articolare un discorso critico e politico che sia accessibile, appunto, a tutti gli strati sociali. Lo fa con Hollywood, con la musica pop, con lo star system.

E siamo alla seconda installazione di Modena: «Love Story» con Alec Baldwin e Julianne Moore che interpretano sei rifugiati, le cui testimonianze sono state filmate dalla artista stessa. Ma può la storia di Sarah fuggita dalla guerra in Siria, quella di Shabeena attivista transgender indiana o quella di Luis dissidente politico venezuelano rompere il soffitto di indifferenza della nostra cultura? È qui che entrano in gioco le star: se sono loro a narrare le storie, l’attenzione cambia. E la recitazione commuove immensamente di più del dolore reale raccolto dal vivo nelle interviste di Candice Breitz.

Non c’è giudizio, siamo di fronte a una verifica. La presenza sullo schermo dei due attori hollywoodiani è oggettivamente molto più forte dei sei monitor che nella stanza accanto proiettano le interviste originali. Ma tutto questo è anche la prova di come un processo di elaborazione artistica possa permetterci di leggere la complessità di una realtà che altrimenti, diluita nel quotidiano, nell’overdose di media e social media o nelle macchine di propaganda, può facilmente sfuggire. Anche perché nonostante l'abbondanza di comunità digitali e socializzazioni virtuali siamo sempre più soli e isolati, ci avverte Breitz, la quale come terza installazione, «Digest», ci regala un memoriale, un monumento funebre all’immaginario collettivo, una tumulazione di 1.001 Vhs.

Ordinati secondo un senso che si rivela man mano ai nostri occhi, sigillati ognuno in una vernice nera dalle diverse decorazioni, e marchiati di un’unica parola dell’originale titolo, le vecchie cassette imprigionano ognuno una storia che forse conosciamo e riconosciamo nel lettering di un «Die», che è poi quel che resta di «Die Hard», o di un «Pulp» inequivocabilmente «Pulp Fiction».
«Digest» (2020) di Candice Breitz, installation view, «Never Ending Stories» (2022), Fmav - Palazzina dei Giardini, Modena. Foto Rolando Paolo Guerzoni
1.001 storie come quelle di Sherazade. Ma anche 1.001 videotape che marchiano l’inizio della fine del cinema e simboleggiano il cimitero di un corpo sociale. Il passaggio da un rito collettivo a una visione individuale. Il segno di un cambiamento profondo che ci ha sempre più rinchiuso nelle nostre «comfort zone», nel bozzolo di un’esperienza relegata al computer e agli schermi di casa. Non a caso «Digest» è stato concepito durante il lockdown, e non a caso nel posto d’onore dell’installazione troneggia un «Crown» con l’ombra di un coronavirus.

È così signora Breitz? È corretta la lettura «politica» di questo suo ultimo lavoro?
Lei risponde con tutta la sua vivace, contagiosa e brillante cordialità: può essere così ma non necessariamente, l’opera resta integra anche se si entra in «Digest» semplicemente per divertirsi a riconoscere i film dal lettering di un’unica parola. Perché, ribadisce ancora una volta, ogni suo lavoro deve essere accessibile a tutti e a tutti i livelli di lettura. Come lo era una Madonna in una chiesa rinascimentale circondata da simboli suscettibili di complessa interpretazione ermeneutica, ma potente e coinvolgente anche nell’evidenza della sua semplice immagine. Se c’è una funzione politica dell’arte è questa: da sempre.

«Love Story» (2016) di Candice Breitz, installation view, «Never Ending Stories» (2022), Fmav - Palazzina dei Giardini, Modena. Foto Rolando Paolo Guerzoni

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