Brescia, città del Leone
Al Museo di Santa Giulia la prima mostra nell’ambito delle manifestazioni per la nomina, con Bergamo, a capitale della Cultura 2023

La città di Brescia, con Bergamo capitale italiana della Cultura 2023, avvia il palinsesto delle manifestazioni con una mostra inedita che, nel Museo di Santa Giulia, rilegge una stagione della sua storia fondante per la costituzione della propria identità, eppure sinora ben poco esplorata. Intitolata «La città del Leone. Brescia nell’età dei Comuni e delle signorie» (fino al 29 gennaio, catalogo Skira), l’esposizione è curata da Matteo Ferrari, ricercatore all’Ephe-École Pratique de Hautes Études di Parigi e collaboratore scientifico dell’Università belga di Namur, che ha riunito 120 opere tra sculture, pitture, codici, oreficerie, documenti, monete, medaglie, dalla seconda metà del XII secolo, quando prendevano corpo le prime forme delle istituzioni comunali, fino al 1426, quando la città entrava a far parte della Repubblica di Venezia.
Erano, quelli, i tempi in cui si formavano i primi simboli della città, dallo stemma con il leone rampante al culto dei santi Faustino e Giovita e delle Sante Croci, oltre a quello della Vergine, tuttora centrali nell’identità bresciana, mentre si configuravano gli spazi urbani del potere, civico e religioso. Intanto, ai vertici della cosa pubblica si avvicendavano il libero Comune (fine XII-fine XIII secolo), poi le signorie dei Maggi, bresciani, dei Visconti (dal 1337, i costruttori del Castello sul Cidneo) e, dal 1404, di Pandolfo III Malatesta, che trasformò il Broletto nella sede di una corte raffinatissima, chiamandovi a lavorare Gentile da Fabriano, l’artista più celebrato del tempo. Ne parliamo con il curatore.
Matteo Ferrari, come ha potuto «mettere in scena» in una mostra una stagione così lontana, di cui poi, specie nell’araldica, pochi esempi sono sopravvissuti alla damnatio operata dai signori che si sono avvicendati ai vertici della città?
Il filone araldico monumentale (ambito di studio in cui sono impegnato anche in Francia) rappresenta un problema non da poco. A Brescia, è vero, sono poche le tracce legate ai potentati esterni alla città: la presenza viscontea, per esempio, è davvero rada, essendo rimasto solo un cippo con stemmi, poi parzialmente abrasi, oggi in Museo, e poche testimonianze pittoriche, inamovibili, in città e nel territorio. L’abbiamo perciò evocata attraverso altri documenti, come i manoscritti: uno, prestato dalla Bibliothèque Nationale de France, fu realizzato per il figlio di Luchino Visconti, mentre l’altro, dalla Biblioteca Trivulziana di Milano, è il più antico Stemmario lombardo.
Avete previsto la possibilità di «sfogliare» in digitale i codici?
Sì, due, intrasportabili, si possono sfogliare in digitale: uno, di tema arturiano (del Castello di Chantilly), fu realizzato a Modena nel 1281 per un magistrato itinerante bresciano ed è il più antico composto in Italia che riporti il testo in cui si narra la morte del sovrano. L’altro, da Coblenza, racconta il viaggio di Arrigo VII in Italia, per farsi incoronare imperatore a Roma: una cronaca figurata in cui si trovano diverse miniature che illustrano momenti dell’assedio delle sue truppe alla città di Brescia, nel 1311.
Come avete documentato, per esempio, la presenza di Gentile da Fabriano alla corte di Pandolfo Malatesta, essendo perduta (se non per minimi lacerti) la Cappella di San Giorgio, da lui decorata nel Broletto? E sono previsti itinerari nella città?
Per l’epoca di Pandolfo siamo ricorsi alle monete, a uno splendido manoscritto appartenuto a Pandolfo e a medaglie di Matteo de’ Pasti e Pisanello, tra le quali quella, famosa, con il profilo del figlio Sigismondo Pandolfo, nato proprio a Brescia, ma abbiamo predisposto, come anche per l’età viscontea, itinerari in città commentati da un’app e un’audioguida, alla scoperta di edifici e spazi connotati da una valenza civica. Quanto a Gentile, l’abbiamo evocato con la sua «Madonna dell’umiltà», dal Museo di San Matteo di Pisa, ma anche attraverso i registri della contabilità malatestiana, da Fano, dove figurano i pagamenti di Pandolfo per la cappella in Broletto. Il problema, per una mostra di questo tipo, era trovare opere che permettessero non solo di illustrare episodi ma anche di evocare fatti storici e artistici perduti. E qui ci è venuta in soccorso la reinterpretazione ottocentesca (in chiave patriottica) del Medioevo, che ci ha offerto dipinti e disegni in cui si documentano edifici della città oggi scomparsi o alterati proprio dai restauri ottocenteschi. Il carattere atipico di questa mostra consiste nella molteplicità di oggetti e di supporti, dai dipinti, anche murali, a documenti d’archivio, sigilli (e matrici di sigillo, rarissime), con i quali abbiamo cercato di essere al tempo stesso scientificamente rigorosi ma anche il più divulgativi possibile.