Boris Mikhailov: «La fotografia dà senso alla mia vita»

Mentre è in corso una sua retrospettiva alla Maison Européenne de la Photographie, il fotografo ucraino riflette sulla guerra tra il suo Paese e la Russia e sul fatto che la sua arte sia nata dalle avversità

Mikhailov immortala le proteste del 2013 in piazza Maidan a Kiev nella serie «The Theater of War, Second Act, Time Out» esposta l’anno seguente in Russia a Manifesta 10 © Boris Mikhaïlov/VG Bild-Kunst; Cortesia Galerie Suzanne Tarasiève
Tom Seymour |

Boris Andreevich Mikhailov è nato il 25 agosto 1938 a Kharkiv da padre ucraino e madre ebrea ucraina. È cresciuto negli anni seguiti all’Holodomor, la terribile carestia che in epoca staliniana uccise milioni di ucraini.

Uno dei primi ricordi dell’artista è di aver abbandonato il padre in città al momento dell’invasione delle truppe tedesche, in fuga con la madre su uno degli ultimi treni merci uscenti da Kharkiv nell’ottobre del 1941. Qualche mese più tardi, 15mila ebrei in città furono fucilati nelle foibe di Drobitsky Yar.

Mikhailov è  dunque cresciuto oppresso dall’angoscia di una «imminente fine del mondo». A 18 anni si arruola nell’esercito. Incapace di venire a patti con la cultura militare, comincia a lavorare come ingegnere in un’industria che produceva componenti elettriche per il settore aerospaziale. La fabbrica aveva una sua camera oscura che Mikhailov utilizza nei successivi dieci anni per sviluppare le fotografie scattate in privato.

Nel 1968 la sua vita cambia: dopo una soffiata, il Kgb sequestra la camera oscura della fabbrica trovando le foto di nudo che Mikhailov aveva scattato alla moglie. Viene interrogato, il suo appartamento saccheggiato, il lavoro confiscato e distrutto. Accusato di pornografia, perde il lavoro e comincia a fare il fotografo a tempo pieno.

Oggi Mikhailov è uno dei più acclamati fotografi ucraini. Mentre il conflitto con la Russia continua, una retrospettiva sulla sua intera carriera dal titolo «Boris Mikhailov: Journal ukrainien»  (Diario ucraino) è in corso fino al 15 gennaio 2023 alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi.

Vedere la sua patria e la sua città d’origine quotidianamente sotto attacco deve essere un’esperienza traumatica. Com’è riuscito (ammesso che ci sia riuscito) a venire a patti con questo terribile evento?
Si dice che un uomo non possa abituarsi a nulla. Una casa crolla? Un’altra sarà costruita al suo posto, ma è impossibile ricostruire le vite distrutte. Non posso dimenticare quest’infido attacco al mio Paese. Non posso abituarmi a questa guerra, la vista di povere persone fatte a pezzi.

Nel 2013 lei ha fotografato i manifestanti di piazza Maidan a Kiev e nel 2014 il suo lavoro è stato esposto in Russia al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Se avessi raccontato al Boris che fotografava gli eventi del 2013 quello che sarebbe successo nel 2022, avrebbe reagito con sorpresa?
È vero che storicamente è successo più volte che due Nazioni vicine entrassero in guerra l’una contro l’altra. È difficile per Stati giovani, soprattutto per quelli con una storia condivisa. Tensioni politiche e culturali sono sempre state presenti fin dalla caduta dell’Unione Sovietica, con la conseguente creazione di un’Ucraina indipendente. La possibile invasione russa era ritenuta probabile in piazza Maidan, anche se pareva impossibile pensarci. Ma l’assurdità e la perfidia di questo attacco hanno reciso questi legami, quelli che esistono ora e che esisteranno in futuro. Sono stati spazzati via e non credo che riusciremo a ricrearli per molto tempo.
Boris Mikhailov comincia «Red Series (1968-1975) documentando la vita a Kharkiv durante il periodo sovietico subito dopo aver perso  il lavoro come ingegnere per aver sviluppato foto di nudo nella camera oscura della fabbrica. © Boris Mikhaïlov/VG Bild-Kunst; Cortesia Galerie Suzanne Tarasiève
Quando è stato in Ucraina l’ultima volta ?
A ottobre dell’anno scorso. Sfortunatamente non ci sono rimasto molto. Non viaggio spesso a causa della malattia, ma Kiev era piena di vita e di energia. Sembrava una capitale europea. Credo che continuerà a essere la capitale di una Nazione libera, capace di scegliere autonomamente il suo percorso.

Per chi non fosse mai stato a Kharkiv, come descriverebbe la sua città?
Per me Kharkiv è avvolta da un aura di prestigio perché è stata la prima capitale dell’Ucraina: uno nodo fra l’est e il nord, fra il sud e l’ovest. La sua fisonomia è pura storia, rappresenta la nascita di una cultura moderna. Kharkiv ha fatto di me il fotografo che sono forgiandomi nell’intero arco della vita. Ora che ho 83 anni provo un senso di familiarità, come se le fossi stato utile, almeno un po’.

Qual è il suo ricordo più caro di Kharkiv?
Vedendo la mia città soffrire, provo solo dolore. Ma spesso la mente si anima di ricordi per la città del mio passato. Mi sento riempire da ricordi appassionati: le mie amicizie, il calore dei miei genitori, l’orgoglio che la città ha dato alla sua gente. Cose che mi sono state trasmesse dalla nascita e per le quali sono grato.

Dice spesso che la fotografia è stata «la sua via d’uscita». Che cosa intende?
La fotografia ha dato senso alla mia vita. Prima, tutto pareva rimanere lo stesso: vita, giovinezza, amicizia, amore, ma la fotografia ha unificato questi aspetti. È stata il mio modo di venirne fuori, una fuga dal vuoto della mia esistenza.

Lei ha perso il lavoro per aver sviluppato delle fotografie di nudo nella camera oscura della fabbrica. Mi racconti qualcosa della sua vita prima della fotografia. Che tipo di uomo era?
La vita prima della macchina fotografica mi sembra ora una sorta di preparazione. Le mie amicizie, i miei studi, persino la pallacanestro, il nuoto hanno formato il mio occhio dietro l’obiettivo. Bisogna fidarsi della strada scelta per sapere che stai camminando nella direzione giusta. Quella fiducia risiede nella qualità delle tue creazioni. Sarà sempre così.
Nel 1992 la serie dei ritratti eroicomici «I am not I» nel momento del collasso dell'Unione Sovietica. © Boris Mikhaïlov/VG Bild-Kunst; Cortesia Galerie Suzanne Tarasiève
Lei ha raccontato di essere stato testimone, negli anni Cinquanta, di un gruppo di giovani di Kharkiv finiti in carcere con l’accusa di pornografia e per aver assunto «pose occidentali» dopo essersi fotografati a vicenda sulla spiaggia. Per gran parte della sua vita è vissuto sotto sorveglianza e censura. Questa circostanza come ha influenzato il suo lavoro di allora e di oggi?
Quei fatti hanno agitato gli animi in città per un bel po’. Nell’Unione Sovietica le persone indesiderate spesso finivano a processo per pornografia o dichiarate pazze. A Kharkiv, un gruppo di giovani fu accusato di pornografia e dissolutezza e le fotografie che avevano scattato furono usate come prove per l’accusa. Erano immagini fatte in casa, private e naïf. Molti anni dopo, all’inizio degli anno ’90, ho conosciuto uno dei partecipanti che mi ha mostrato il fascicolo del tribunale con le fotografie. Avevano ancora le annotazioni del tribunale, ma tutto ciò che vedevo io era vita, giovinezza e gioia. Oggi è difficile da credere, ma a quel tempo e in quel luogo la fotografia era impossibile.  Ogni epoca però, ricordiamocelo, impone le proprie esigenze ai fotografi e alla fotografia.

Si deve essere sentito spesso in pericolo nel suo lavoro.
All’inizio avevo paura di tutto. Avevo paura di fare qualcosa di sbagliato: di scattare in modo sbagliato, di sviluppare in modo sbagliato, di stampare una fotografia in modo sbagliato. Ma il pericolo più grande era fotografare in strada. Se ti trovavano a scattare per strada, chiamavano subito la polizia: «Che foto stai scattando? Per quale motivo?».  A quell’epoca c’era una vera e propria ossessione per le spie e in generale molta diffidenza verso le persone che facevano qualcosa di diverso.

Aron Morel, il suo editore a Londra, l’ha definita un «vero sovversivo». Accetta questa definizione? Si può rimanere sovversivi nella nostra cultura artistica liberale?
Ho sempre cercato di creare immagini, anche quando diventava difficile, fisicamente e mentalmente. Per farlo, ho dovuto abbandonare abitudini e modalità di lavoro tradizionali. A volte penso di aver avuto la fortuna di essere un sovversivo. Ma quello che cercavo di fare era combattere per la verità cercando di non fare danni.

Nella serie «Case History» ha fotografato le persone più deboli di Kharkiv, tra cui dei senzatetto. Lei ha sempre parlato di una necessità di empatia e rispetto insita nel processo di produzione di immagini. Sarà di certo al corrente dell’intenso dibattito sull’etica del consenso nel fotogiornalismo. Lei da che parte sta?
Per quel progetto sono stato il più aperto possibile. Ho coinvolto i partecipanti nel processo di creazione delle immagini. Credo che un fotografo debba sempre attirare l'attenzione del pubblico su un problema, ma credo anche che un fotografo debba cercare in qualche modo di risolverli questi problemi.

Quale fornama d’arte la appassiona in questo momento?
Sono sempre più attratto dalla filosofia. Mi sembra la più adatta a fornirmi una spiegazione di ciò che dovrei fare, di ciò che dovrei cercare per adattarmi ai tempi odierni.

Pensa di poter tornare a fotografare Kharkiv?
Certo. La mia casa è lì. Spero che la mia attesa non sia vana, che mi capiti qualcosa tra le mani, com’è già successo in passato.

Quale messaggio invierebbe ai molti russi progressisti che privatamente
si oppongono al regime di Putin e alla guerra in Ucraina?È difficile dare consigli in tempo di guerra. Ognuno deve decidere da solo. Ma ci si può alzare e andare a lavorare, come si faceva ai tempi dell'Unione Sovietica.

Traduzione di Mariaelena Floriani

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