Aspettando Champollion | Geroglifici tra alchimia e scienza

La storia dell’interpretazione della scrittura comincia dove finisce quella della civiltà faraonica, a 200 anni dalla decifrazione della Stele di Rosetta

Ingresso della Piramide di Cheope a Giza ritenuto essere stato scavato dal califfo Al-Mamun
Francesco Tiradritti |

L’obelisco di Antinoo testimonia che a Roma vi erano persone in grado di redigere un testo in geroglifico almeno fino al II secolo d.C. La precisa cognizione che si aveva di questa scrittura è d’altro canto dimostrata dagli studi di poco posteriori di Clemente Alessandrino (150-215 ca) dove i segni vengono differenziati in tre categorie a seconda della loro funzione, una delle quali era quella di corrispondere a sequenza fonetiche.

L’atteggiamento del mondo accademico dell’epoca subì un drastico mutamento a partire dal III secolo, quando il filosofo greco e padre del neoplatonismo Plotino (203/205-270) propose di interpretare i geroglifici come pure rappresentazioni simboliche della realtà. La visione plotiniana, secondo la quale a ogni segno corrisponde un concetto legato alla natura allegorica delle cose, ebbe una notevole eco influenzando gli studi sull’argomento anche dopo la cessazione delle attività della scuola neoplatonica da lui fondata (VI secolo). Soltanto alla metà del XVII secolo, quando lo sguardo degli eruditi europei si volse con maggiore attenzione verso l’Oriente, l’interpretazione di Plotino dei geroglifici cominciò a essere messa in discussione.

Nei secoli dell’Alto Medioevo il ricordo dell’Antico Egitto aleggiava sulla cultura occidentale come quello di una civiltà antichissima e dalla sterminata e misteriosa conoscenza. Il mondo musulmano, che aveva invece un’esperienza diretta della Valle del Nilo e dei monumenti faraonici che affioravano dalle sabbie, espresse sin da subito un vivo interesse per la scrittura geroglifica e la sua decifrazione, spingendo innumerevoli studiosi a dedicarsi al problema già a partire dall’VIII secolo.
L’alchimista Jabir ibn Hayyan, da un ritratto di Geber del XV secolo, Codice Ashburnhamiani nella Biblioteca Laurenziana di Firenze
Un primo tentativo interpretativo ricorre già negli scritti del celeberrimo alchimista persiano Jabir ibn Hayyan (ca 721-815), considerato il padre della moderna chimica. Le sue opere (originali o spurie) conobbero un’immensa fortuna nel mondo musulmano e, tradotte in latino, anche in quello cristiano, dove divenne noto con il nome di Geber.

Lo studio della scrittura geroglifica da parte di Jabir s’inserisce nell’ambito di un’analisi delle sostanze e della dinamica delle loro trasformazioni attraverso un approccio linguistico e ontologico.
Tra il IX e l’XI secolo, nel mondo musulmano, si assiste, da un lato, a un fiorire di studi sui geroglifici allo scopo di arrivare alla loro decifrazione, dall’altro, alla nascita di una letteratura che li interpreta come la più pura manifestazione della civiltà egizia e, come questa, li ammanta perciò di fascino e di mistero.

La visita di Al-Mamun (786-833), settimo califfo della dinastia abbaside, alle piramidi di Giza (832) è esemplificativa di questo secondo atteggiamento. Uno dei resoconti più dettagliati è quello del geografo spagnolo Mohammed Al-Idrisi (1099-1165) che, scritto a secoli di distanza, possiede già le caratteristiche leggendarie che indurranno, successivamente, a trasformare l’episodio nella storia che Shahrazad racconta al crudele Shahriyār nella 398esima notte della raccolta di racconti Le mille e una notte.
Riutilizzo di un blocco con geroglifici come base di colonna nella Moschea Amir Altinbugha al-Maridani (1334-40) al Cairo (Foto di Francesco Tiradritti)
La relazione di Al-Idrisi e la favola concordano entrambi nell’affermare che al-Mamun avrebbe fatto praticare un passaggio nella Piramide di Cheope al termine del quale sarebbe entrato in una stanza al cui interno si trovava un vaso contenente l’identica somma in oro da lui spesa fino a quel momento per l’impresa. Rispetto a quella de Le mille e una notte, la versione di Al-Idrisi si arricchisce anche dell’episodio in cui Al-Mamun manda a chiamare Ayyub ibn Maslama, considerato già all’epoca l’unico in grado di tradurre i testi incisi nelle piramidi che, secondo quanto riportato dal geografo spagnolo, sarebbero stati redatti in dieci scritture diverse. Si è a lungo ritenuto che, in questo caso, il riferimento potesse essere a iscrizioni geroglifiche, senza tenere conto però che le piramidi di Giza sono anepigrafi.

La soluzione a questo piccolo enigma è arrivata con il ritrovamento in anni recenti di resoconti di pellegrini europei che raccontano di avere visitato la Grande Piramide di Cheope descrivendo le decine e decine di graffiti che i viaggiatori avevano inciso alla base della sua copertura nel corso dei secoli. È assai probabile che Ayyub ibn Maslama li avesse tradotti ad Al-Mamun e ci sono anche studiosi che hanno ipotizzato quali fossero le dieci scritture menzionate da Al-Idrisi.

Le pietre in calcare che coprivano l’imponente e celeberrimo monumento di Giza sono state purtroppo asportate dal Saladino (Salah al-Din Yusuf ibn Ayyub, 1137-93) che le ha riutilizzate nella costruzione dell’acquedotto e di altre opere edilizie da lui volute al Cairo. Saladino non era il primo a sfruttare le antichità faraoniche per attività costruttive. Lo aveva già fatto Ahmed Ibn-Tulun (835-884). In questo caso si era limitato a vendere concessioni di scavo riuscendo a raccogliere i quattrocento chili d’oro con cui avrebbe poi costruito la sua moschea, una delle meraviglie dell’arte islamica tuttora visitabile al Cairo, e un ospedale.
Pagina dello pseudo-Ibn Wahshiya con discussione su alcune sequenze di geroglifici (Bayerishe Staatsbibliothek, CodArab 789, 121)
L’attività di scavo di antichità nell’Egitto del IX secolo era assai redditizia e conduceva al ritrovamento di numerose antichità iscritte che destavano l’attenzione degli studiosi dell’epoca. Tracce di testi tratti da monumenti compaiono in uno degli scritti attribuiti all’alchimista iracheno Ibn Wahshiya (morto intorno al 930), ma che deve invece essere stato redatto da un copista vissuto qualche secolo dopo.

L’opera ha il titolo di Il libro che ogni appassionato degli scritti segreti ha sempre desiderato ed è dedicata quasi interamente alla trattazione dei geroglifici. L’autore afferma di avere visitato innumerevoli volte l’Egitto ed è forse proprio venendo in contatto con i monaci copti, che utilizzavano come lingua liturgica la fase finale della lingua egizia trascritta utilizzando i caratteri greci, che trasse suggerimenti per la lettura di molti segni. La correttezza delle trascrizioni nel libro attribuito a Ibn Wahshiya resta comunque molto lontana dalla realtà. La sua importanza risiede però nel fatto che si ritiene che una copia manoscritta sia venuta in possesso di Athanasius Kircher, il gesuita che per primo tentò uno studio scientifico del geroglifico, e che dovette fornirgli il collegamento con la lingua copta che un paio di secoli dopo si rivelerà pieno di fruttuose conseguenze.

Aspettando Champollion
La storia dell’interpretazione della scrittura comincia dove finisce quella della civiltà faraonica, a 200 anni dalla decifrazione della Stele di Rosetta
I geroglifici degli obelischi
Geroglifici tra alchimia e scienza
Il sogno geroglifico del Rinascimento
La decifrazione del sistema geroglifico

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Francesco Tiradritti