Alla Triennale l’avvincente confronto tra due liberi innovatori: Gianfranco Baruchello e John Latham

Federico Florian |

Non fu un’insana mania biblioclasta a spingere John Latham (Livingstone, Zambia, 1921 - Peckham, Gran Bretagna, 2006), nel 1966, a masticare le autorevoli pagine del saggio Arte e cultura del critico d’arte americano Clement Greenberg. L’artista britannico, ingoiando uno dei fondamenti della recente critica d’arte, piuttosto, intendeva ripudiare le presunte «verità» in esso contenute. Così come, appiccando il fuoco a torri fatte di libri (da lui chiamate «skoob towers»), non faceva altro che parodiare e disconoscere ogni sistema di conoscenza razionale. Equipaggiato di minore furia distruttiva ma di spirito altrettanto rivoluzionario, Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924), negli stessi anni, s’impegnava a decostruire il linguaggio del film e della pittura: il primo attraverso inquadrature prevalentemente fisse e un montaggio anti narrativo, la seconda mediante assemblaggi di oggetti
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