Per Alberto Garutti non c’è arte senza pubblico. E viceversa.

Riconosceremmo l’orinatoio di Duchamp fuori dal museo? Eppure è tempo che impariamo ad assumerci la responsabilità di cercare e vedere l’arte anche quando si nasconde

Alberto Garutti. Foto: H. H. Lim
Valeria Tassinari |

Nel giorno della scoparsa di Alberto Garutti (Galbiate, 1948) riproponiamo questa recente intervista del marzo di quest'anno apparsa sul «Venrissage» del Giornale dell'Arte.

Alberto Garutti (Galbiate, Lc, 1948) è un artista che sa raccontare il suo lavoro con una precisione molto particolare, forse perché, accanto a una carriera espositiva importante, per molti anni ha continuato a dedicarsi anche alla docenza, insegnando Pittura all’Accademia di Bologna e all’Accademia di Brera a Milano, e tenendo lezioni presso lo Iuav di Venezia e il Politecnico di Milano. Sentirlo parlare, o leggere le sue riflessioni, sul metodo che orienta il suo lavoro, è sempre un’occasione per avvicinarsi al senso, a conferma che l’essenza della sua ricerca è la relazione aperta con il pubblico, e su questo obiettivo si incardinano con evidenza i suoi progetti più celebri.

Invitato a grandi manifestazioni internazionali, come la Biennale di Venezia (alla quale ha partecipato nel 1990, 2010 e 2014), protagonista di personali in importanti spazi museali e privati, dagli anni Novanta Garutti ha definito la vocazione più profonda della sua azione creativa, focalizzandola sulla ricerca del dialogo complice tra opera d’arte contemporanea, spettatore e spazio pubblico. Questa attenzione, che gli è valsa l’invito a realizzare lavori per città e musei di tutto il mondo, collega con coerenza il suo lungo percorso, nel quale lo spazio della città, il paesaggio, l’interno del museo o la galleria privata sono contesti in cui attivare tra opera e spettatore traiettorie che si sfiorano e talvolta si invertono: se nello spazio dedicato all’arte lo spettatore entra per cercare l’opera, nell’ambiente non specialistico l’opera stessa deve saper andare incontro al pubblico, per poterne intercettare lo sguardo e attivare la sfera emozionale.

I suoi lavori, minimamente invasivi sul piano materiale e tuttavia potenti, spostano così l’orizzonte dei valori dalle cose alle persone, alle quali è assegnata la responsabilità di saper vedere, attivando non solo gli occhi ma anche un sistema di attese, aspettative e proiezioni immaginative. Su questa ricerca di interazione agisce anche il suo ultimo lavoro, «Che cosa succede nelle stanze quando gli uomini se ne vanno?» (2023), realizzato con pittura fosforescente e mobilio, un progetto commissionato e acquisito da Bologna Fiere in occasione dell’ultima edizione di Arte Fiera, ora affidato in deposito permanente al MAMbo-Museo d’arte moderna di Bologna, dove troverà una nuova collocazione.

Nell’ampia installazione originale, diffusa tra gli spazi comuni e alcuni stand della fiera, mobili e oggetti quotidiani coperti di vernice fosforescente si mimetizzavano tanto da non poter essere riconoscibili come parte di un’opera d’arte; così il pubblico che affollava i padiglioni non poteva vederli, se non come semplici elementi d’arredo ai margini del gran numero di opere esposte, ma chi aveva prestato attenzione alla comunicazione sapeva che, quando al termine della giornata le luci sarebbero state spente facendo scivolare tutto il resto nel silenzio e nel buio, le forme geometriche e familiari di panche, tavoli, sedie e cassettiere sarebbero apparse, colorate e luminose, componendo una scena metafisica, dal disegno rigoroso e ipnotico.

La sua idea di installare nei padiglioni di Arte Fiera a Bologna un’opera che si rendeva effettivamente visibile solo dopo l’uscita del pubblico è stata considerata allo stesso tempo poetica (le immagini notturne con gli oggetti luminosi nel buio hanno un aspetto incantato, fiabesco), ma anche un po’ provocatoria, visto che nel caos della fiera gli arredi comuni, dislocati nello spazio e rivestiti di una vernice quasi impercettibile, non si riuscivano a identificare. Il lavoro, dunque, era fruibile solo nella sua restituzione fotografica, mentre non era possibile farne esperienza, se non immaginandolo e accettando di mettersi in uno stato di attesa di qualcosa di impercepibile. Per quale ragione ha scelto di proporre questo progetto?

Il progetto pensato per Arte Fiera non intendeva provocare, ma piuttosto porre delle domande sulla responsabilità del ruolo dello spettatore, e si mette in strettissima relazione con una serie di argomentazioni su cui si fonda tutta la poetica del mio lavoro, soprattutto legata agli anni della fine del millennio, da quando ho cominciato a fare opere pubbliche. Penso che lo spettatore sia una figura così fondamentale che senza di esso, e il suo sguardo, l’opera non esisterebbe e quindi, più che provocazione, preferisco intraprendere un discorso di relazione tra questi due poli. Attraverso quest’opera io ho chiesto, con grande rispetto, che lo spettatore, all’interno di uno spazio molto specializzato sull’arte, compisse lo sforzo di cercare l’opera d’arte.

Questo progetto deriva da un intervento site specific che è stato realizzato la prima volta nella stanza di un hotel di Bologna nel 1993, dunque in un contesto storico e ambientale decisamente differente da quello attuale.

Era il 1993, precisamente trent’anni fa, quando Giacinto di Pietrantonio curò la mostra «Territorio Italiano», per la quale invitò una serie di artisti di altissimo livello, da John Armleder a Michelangelo Pistoletto, a realizzare un’opera in un luogo a propria scelta. In quell’occasione io decisi di installare all’interno della stanza 402 del Palace Hotel di Bologna un grande cristallo dipinto sul retro con pittura fosforescente, «Opera per camera da letto». All’epoca insegnavo all’Accademia di Belle Arti di Bologna e quella stanza era per me una seconda casa. Ancora oggi, chiunque si trovi ad affittare quella stanza, una volta spente luci vedrà l’opera illuminarsi. Questo lavoro racconta di una storia molto segreta, intima, nascosta, direi addirittura clandestina... come certe storie d’amore. Parlo della storia d’amore tra opera d’arte e spettatore, senza il cui sforzo l’opera non esisterebbe. Per la dichiarata volontà del direttore artistico di Arte Fiera Simone Menegoi di celebrare questo trentennale, ho deciso di riproporre un’opera simile all’interno dei padiglioni della fiera.

Portare l’attenzione sul pubblico, sul suo essere presente o assente, sulla sua capacità di vedere davvero l’opera, sulla consapevolezza, sulla casualità e sulla intenzionalità della visione, è un elemento fondamentale della sua poetica. Da che cosa è nata questa intenzione?

Ci troviamo oggi in una società sempre più ubiqua e liquida: in questo contesto le opere hanno una grande voglia di uscire dal museo. Così facendo, rischiano di perdere l’aura di opera e io penso che siamo noi spettatori a dover sforzarci di porre su di loro la giusta attenzione. Immagini di prendere l'orinatoio di Duchamp, ma possiamo parlare di tantissimi artisti le cui opere fuori dal contesto perderebbero di senso; io voglio che lo spettatore faccia questo grande sforzo di assumersi la responsabilità di cercare l’opera: non farebbe altro che difendere l’arte.

Se dovesse indicare alcune opere del passato o contemporanee emblematiche per tracciare una storia della relazione tra artista e pubblico quali sceglierebbe?

Il lavoro dell’arte si sviluppa e si potenzia sempre di più nel momento in cui l’opera diventa uno strumento conoscitivo e politico. Penso a che cosa è successo dentro al grande sistema della Chiesa, che è stata la più grande committente d’arte della storia ed è grazie all’arte che si è messa in relazione con moltitudini di persone. In questo senso possiamo considerare Giotto come il più grande pubblicitario di allora, quando non c’erano i quotidiani o la televisione e l’unico modo di raccontare era la pittura. Per individuare degli episodi più specifici, delle opere che sempre attivamente mi toccano sono la «Trinità» di Masaccio a Santa Maria Novella e la «Deposizione di Cristo» di Rosso Fiorentino a Volterra, in cui vengono raccontate delle storie che appartengono a tutti, che coinvolgono visioni collettive e uniscono moltitudini di persone attraverso l’arte. L’arte sintetizza la storia della collettività.

Parlando invece delle sue opere, quali ritiene che abbiano ottenuto un riscontro più partecipato dal pubblico?

Senza esitare dovrei dire che il lavoro «Ai nati oggi» è stato quello più sentito dal pubblico. Guarda caso ancora una volta tocca un argomento che riguarda l’arte, perché la natività è un tema classico dell’arte; dall’altra parte crea una rete nel paesaggio urbano e riesce pienamente a coinvolgere il pubblico inconsapevole, non specialistico. Credo che «Ai nati oggi» sia un lavoro interessante perché nella storia sono stati fatti monumenti ai caduti, ai feriti, alle tragedie, ai morti... E invece io ho realizzato un’opera che fosse una specie di antimonumento per i vivi, e questo ha avuto un grande riscontro. Ho realizzato per la prima volta «Ai nati oggi» a Bergamo nel 1998, dopo che la morte di mia madre mi aveva portato a riflettere sul tema della nascita. Successivamente è stato ripresentato a Gand, Istanbul, Mosca, Plovdiv e Roma.

«Ai nati oggi», costituita da un sistema di luci collegate ai lampioni pubblici che aumentano di intensità per segnalare in tempo reale la nascita dei bambini negli ospedali delle città in cui viene installata, è un’opera che entra nella dimensione più profonda della vita e della sua condivisione nella collettività, toccando con delicatezza un tema particolarmente sensibile. Si può dire che esista una responsabilità dall’artista nei confronti del pubblico e una responsabilità del pubblico nei confronti dell’artista? Come si costruisce questa reciprocità?

Si può dire che l’artista sia il primo vero spettatore.

Che cosa succederebbe al pubblico se le opere se ne andassero?

Maurice Blanchot diceva che ciò che più conta nell’arte è la misteriosità dell’evento visivo. L’arte avrà bisogno sempre dello spettatore e lo spettatore avrà sempre bisogno di rapportarsi con le opere d’arte.

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