Alberto Arbasino l’illuminista lombardo

Non solo grandissimo scrittore, ma massimo visitatore italiano di mostre che descriveva con lo spirito del Grand Tour. Un’intervista esclusiva nell’estate di 35 anni fa

Alberto Arbasino
Carlo Accorsi |

Nel luglio-agosto 1985 «Il Giornale dell’Arte» pubblicava una lunga conversazione con lo scrittore scomparso il 23 marzo: era uscito un libro con 88 articoli del suo incessante «Grand Tour» per le mostre di tutto il mondo e stava per inaugurare una sua mostra sul «Grand Tour che non potremo mai più fare». Ecco alcuni stralci.

Se visitare le mostre può essere una professione, lei è un visitatore professionista. Perchè si definisce «dilettante»?

«Dilettante» nel senso del XVIII secolo. Come quando si diceva anche «virtuoso». Uno che fa le cose per diletto intellettuale, e non per obblighi burocratici o di carriera. Ma c’è poca ironia in giro.

Viaggiare per mostre non è sempre di più una fatica?

Negli anni ’50 abitavo a Milano e agli spettacoli della Callas, già allora celebratissima, non si prenotava mai, ci si andava come al cinema, e così alle mostre. Adesso disturba non solo la coda enorme (la si può anche sopportare) ma la ressa davanti ad ogni quadro: ci si sente come su un tapis roulant affollato. E i quadri importanti sono diventati inaccessibili all’occhio.

Ha dei consigli pratici per i visitatori?
Solo consigli terra terra, proprio consigli di sopravvivenza: cercare di andare nelle controre, quando non c’è troppa gente, e i gruppi e le scolaresche stanno mangiando. Fuggire le inaugurazioni, tradizionalmente affollatissime. [...] La marea di teste rende invisibili le opere. Essenziale, anche per memorizzare, è rifare il giro due o tre volte, magari nel senso contrario, a costo di alterchi con i custodi, come in quei musei americani dove ogni ora viene ammesso un numero fisso di visitatori, e quindi, usciti da una sala, non vi si può rientrare. Ma certe scelte sono dure: a Napoli, in una sola giornata, si fa prima Caravaggio o prima Cavallino?

È meglio visitare le mostre da soli o in compagnia?

Qualcuno diceva che le massime stupidaggini si sono sentite davanti a capolavori esposti nei musei. Le peggiori credo che siano le esclamazioni dei francesi quando si sforzano di dire la battuta intelligente.

Perché la gente va alle mostre ma non nei musei?

Non si può non notare la differenza smaccata fra le code enormi, le file, le folle smisurate per mostre anche pregevolissime e il deserto nei musei. Lo scorso giugno, un sabato pomeriggio, sono andato a Firenze per la mostra di Arnaldo Pomodoro. Avevo sentito, per mesi e mesi, di queste folle pazzesche davanti a Palazzo Pitti per vedere la mostra dei Raffaello restaurati, per il centenario, in cui non si faceva altro che riunire in una sala i 9 o 10 Raffaello di Firenze. Una domenica mattina, da un albergo che era vicino all’autostrada, con alcuni amici ci siamo detti: andiamo a Firenze. Pensavamo che entrare in Firenze sarebbe stato difficilissimo, che ci sarebbero state delle file pazzesche agli Uffizi, che non avremmo né parcheggiato né mangiato... insomma, avevamo fatto previsioni catastrofiche. Invece, siamo entrati agli Uffizi ed era vuoto, non c’erano code, abbiamo rivisto benissimo gli Uffizi, abbiamo trovato tutti i Raffaello, uno dopo l’altro e anche altri quadri appena restaurati. Evidentemente i fiorentini erano al mare, però si paventavano i turisti. A Pitti si è ripetuta la stessa cosa, si è parcheggiato dove si voleva, abbiamo visto in grande pace tutti i Raffaello, che invece, proprio lì a Pitti, avevano richiesto fatiche, code e file, e alla fine per andare a colazione abbiamo addirittura potuto scegliere se parcheggiare in via Tornabuoni nel lato del sole o nel lato dell’ombra. I quadri, nei loro musei, spesso si visitano benissimo; nella loro sede naturale, a posto, restaurati, senza tanta gente che corre all’avvenimento.

Non pensa che questa voga delle mostre sia transitoria come tutte le voghe?

Resto allibito di fronte a questi entusiasmi così smisurati, di massa e di culto. Quello che si può pronosticare è che le gite scolastiche, con degli insegnanti entusiasti, ma anche dementi, che sospingono questi ragazzini, che non ne vogliono sapere, a vedere mostre anche abbastanza difficili e noiose, porterà a un disinteresse per l’arte, a un distacco totale, nelle prossime generazioni. L’infelicità smisurata di questi bambini sospinti dagli insegnanti, non può non allontanarli per sempre dall’arte.

Non c’è una specie di imperativo morale sotterraneo: bisogna andarci perché ci vanno tutti? La sindrome del gregge?

A Castelfranco c’è quell’unica Madonna di Giorgione, che secondo certi esteti di altri tempi stava così bene dov’era in quella chiesa, con una tendina di rayon giallo limone. Per le celebrazioni, l’hanno tolta dalla chiesa, le hanno fatto attraversare la piazza e l’hanno messa in una casa del Giorgione, appena restaurata, da sola, circondata di fotocopie, di diapositive di atti notarili in veneto antico, relativi alla compravendita di stabili e di fondi rustici. Le folle arrivavano colossali e una anziana signora mia amica diceva: «Ma per forza. Tutti i miei conoscenti ritornano entusiasti perché dicono: c’è una coda di macchine lunga 10 chilometri, abbiamo dovuto lasciare la Panda in un fosso, abbiamo fatto una fila di tre ore e per di più non c’era posto nel ristorante e siamo tornati con i bambini che non avevano mangiato». Questo dà la sensazione di essere nel posto giusto, dove bisogna essere. L’unica, veramente l’unica cosa da vedere, era la Madonna di Castelfranco: averla spostata aveva provocato le code, prima non ci andava nessuno e adesso di nuovo non ci va nessuno.

Per quanto lei sia un critico non «dilettante» bensì atipico, come si sente nei panni dello scrittore «facente funzione»?

Leggo più volentieri i critici scrittori, come Diderot e Baudelaire, e fra gli italiani Longhi, maestro (come Contini) di tali malizie stilistiche, invenzioni lessicali, arguzie di linguaggio, da farsi leggere come letteratura squisita. In fondo, spesso la miglior prosa italiana è stata così: estremamente ricercata, elegante, fantastica, aristocratica, intraducibile. E Longhi si gusta come un piacere, come una pietanza meravigliosa. Credo anche di dovere moltissimo alla metodologia, all’espressività, all’eclettismo di Mario Praz, di Bruno Barilli, di Alberto Savinio. La nostra società è piena di conversatori eccellenti che si ascoltano con piacere, e che si esprimono con aneddoti e con paragoni. Qualcosa che cerco di fermare sulla pagina è questo tono di conversazione intellettuale italiana che ha lasciato poche tracce nella nostra letteratura, così povera di diari e di epistolari. Forse tutto lo spirito veniva impiegato o sperperato nella conversazione colta.

Lei ha più volte espresso il suo apprezzamento per gli artisti italiani degli anni ’60, per esempio per Schifano. Ma non trova che nelle mostre all’estero siano normalmente sottorappresentati?

Mi sembra che siano state consumate delle iniquità nei confronti dei nostri artisti degli anni ’60, e dei favoritismi nei confronti degli artisti degli anni ’80. Questo da un punto di vista di politica culturale dei musei, delle fondazioni e ovviamente dei galleristi e dei mercanti prima di tutto, e possiamo vedere quali erano le ragioni: negli anni ’60, un certo gruppo di gallerie aveva tutto l’interesse a spingere un’arte soltanto americana, soltanto nazionalistica e patriottica oltre che pop. Ai non americani, per esempio a Pistoletto e a Schifano, si chiedeva di «nazionalizzarsi», di andare a New York e di lasciarsi assimilare. Ho l’impressione che allora esponessero soprattutto coloro che facevano mappe degli Stati Uniti, bandiere, prodotti industriali americani e altri emblemi di patriottismo. Non so fino a che punto questo programma fosse lucido e voluto o invece pulsionale e istintivo. Col senno del poi, però, chi faceva un certo tipo di arte patriottica veniva lanciato, gli altri no.

Adesso la situazione è rovesciata: l’arte è più nazionalista. La Transavanguardia italiana…

Tutte le volte che vedo una mostra di Chagall, ritrovo molta Transavanguardia italiana o tedesca. Ho visto la recente mostra di Chagall alla Royal Academy. Al ventesimo violinista sul tetto si aveva la stessa sensazione di monotonia e di ripetitività suscitata dall’altra mostra contemporanea di Renoir, di fronte alla cinquantesima bagnante fatta con gli stessi colori, con le stesse pennellate e con la stessa modella nel medesimo atteggiamento.

Quando morì de Chirico nel ’78 lei scrisse: «E insomma, ecco qui, senza più dubbi, il massimo pittore del Novecento. Giù il cappello! E non avendo il cappello: giù la testa! E non avendo neanche testa: giù tutto il resto!». Tra tanti encomi funebri nessuno fu altrettanto assoluto e tutto sommato chiaroveggente.

Ma io l’ho sempre trovato affascinante. Né più né meno come amavamo alcuni maestri del ’900 nella letteratura, Gadda e Palazzeschi, che anche se non hanno riconoscimenti all’estero rimangono dei punti di riferimento altissimi per la nostra generazione. Non ho mai avuto dubbi sulla grandezza di de Chirico: bastavano le opere importanti per sorvolare serenamente gli ultimi decenni, in attesa di ritornarci sopra.

Ora, da spettatore lei diventa attore: in settembre a Torino alla Mole Antonelliana lei firmerà una sua mostra.

Quando ero studente di diritto internazionale, passavo dei lunghi periodi nelle Università straniere, a Parigi o ad Harvard o a Londra e bastavano alcune letterine gentili per provocare incontri con personaggi oggi leggendari come Edmund Wilson in America, a Londra Eliot o Forster o la Compton-Burnett, a Parigi Céline, Mauriac, Jouhandeau, Cocteau; in Germania Adorno. Ora non esistono assolutamente più personaggi di questo tipo, perché tutti sono ormai esposti da giornali, da riviste, da televisioni, si sa tutto di tutti, non c’è più nessuno che si ha un vero interesse ad incontrare e se si fa uno spoglio delle personalità più interessanti del mondo, uno sa già dai mass media quello che se ne può ricavare. Quindi, la prima idea per una mostra poteva essere la testimonianza fotografica dei personaggi della cultura, letterati o artisti, grandi personalità a tutto tondo che non esistono più nella società omogeneizzata. Allora l’idea è stata di fare «i viaggi perduti», di ricostruire un «Grand Tour» europeo e nel Vicino e Medio Oriente, magari anche in Estremo Oriente, dei luoghi belli che non si potranno mai più visitare perché non sono più gli stessi o sono talmente trasformati e degradati, che non è più possibile trarne una fruizione estetica. [...] Lo spirito con cui oggi noi facciamo questi repêchages di luoghi non era quello dei fotografi dell’epoca, degli Alinari in Italia, oppure dei fotografi di monumenti in Francia che si preoccupavano di fotografare la cattedrale, il monumento, il palazzo, il palazzetto, la chiesa, la chiesina, mentre oggi visiteremmo quei posti per vedere quel monumento anche nel suo contesto di case vecchie, dei quartieri storici, di scenette di strada. È difficilissimo recuperare in Italia non Venezia, che è rimasta più o meno quello che era, oppure la Roma sparita, che è stata ben documentata, da Primoli e altri, ma, per esempio, una certa Genova, una certa Napoli, e le «città del silenzio», oppure quei giri, nell’Italia Centrale, che faceva Berenson quando andava per quadri o i vecchi inglesi dell’800. Del centro Italia, di Cortona, Città di Castello, Recanati, della Romagna, delle Marche e della Toscana minore, forse esistono poche testimonianze: ci sono tante fotografie Alinari che sono delle belle cartoline frontali, i monumenti di Gubbio sono rimasti tali e quali, ma quasi nulla di quello che era il tessuto minore dell’Italia, dei suoi monumenti ma anche delle strade, della vita italiana, la provincia fra Leopardi e Landolfi. Una certa Francia provinciale è stata fotografatissima, ma sono rari i paesini e le spiagge di Proust, per esempio Combray e Balbec. Nella pittura tedesca, francese e danese si trovano tanti paesaggini urbani ma nella fotografia molto meno. Per fare un altro esempio, le piramidi sono rimaste le piramidi, ma ai tempi di Flaubert e di Maxime Du Camp, stando al Cairo, per fare il giro delle piramidi che oggi i turisti fanno in una giornata, ci volevano 5 giorni, c’era un certo avvicinamento fra gli orti, poi la Sfinge ancora semi sepolta e il mistero della notte nel deserto intorno, e un’alba pittorica, splendida, nel deserto. Ormai invece la città ha circondato le piramidi, su tutti i lati ci sono strade, la parte ghiaiosa del deserto è stata trasformata in parcheggio con mille macchine e mille radioline, bancarelle di ricordini turistici e piccoli musei costruiti a ridosso di Cheope, che non permettono più di vedere solo Cheope. Il nostro tentativo è di recuperare quel Grand Tour che avremmo voluto fare, ma che non potremo mai più fare.

© Riproduzione riservata Albertino Arbasino. Foto tratta da Twitter
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