Al Pac l’arte denuncia le violenze in Argentina
Tra critica e ironia una ventina di autori di diverse generazioni descrivono talvolta con ferocia la brutalità insita nella società e nella cultura del Paese sudamericano sin dagli anni Sessanta e Settanta

Il Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano prosegue nel suo programma di approfondimenti sulle altre culture, lette attraverso lo sguardo dell’arte contemporanea, e dal 21 novembre all’11 febbraio 2024 presenta la collettiva «Argentina. Quel che la notte racconta al giorno» (il titolo è un omaggio al romanzo omonimo dello scrittore argentino di origini italiane Héctor Bianciotti), un progetto curato da Diego Sileo, curatore responsabile del Pac, e dal direttore del Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires, Andrés Duprat, che hanno riunito i lavori di una ventina di autori di diverse generazioni.
La chiave interpretativa scelta è quella della violenza, che connota ininterrottamente la vita, la società e la cultura argentine sin dagli anni ’60 e ’70, con il Peronismo prima, poi il post Peronismo e il golpe militare di Jorge Rafael Videla (che governò dal 1976 al 1981, generando la tragedia dei desaparecidos), fino ad oggi. Perché la violenza non è sparita dopo la dittatura ma si è manifestata anche nelle frequenti, gravissime crisi finanziarie, nei tracolli economici e nei drammi sociali che hanno oppresso e opprimono il Paese. Una storia, questa, spiega Diego Sileo, «raccontata in vario modo dagli artisti che abbiamo selezionato, che appartengono a generazioni attive in tempi diversi, dagli anni ’60 di Léon Ferrari e Liliana Porter, attraverso gli anni della dittatura, fino alle nuove generazioni, che hanno ereditato questa forma di violenza insita nella società argentina».
Ma come emergono, nelle opere, questi fatti? «Gli assi curatoriali sono tre: ironia, letteralità e citazione, prosegue Sileo. Fra gli artisti c’è chi ha scelto una denuncia e una critica feroce, come Adriana Bustos, che ha documentato gli atteggiamenti di Videla durante i Mondiali in Argentina, mostrando quanto le sue posture fossero simili a quelle di Hitler alle Olimpiadi di Berlino. Oppure c’è chi, come Eduardo Basualdo, giovane ma già molto noto, ha preferito un approccio concettuale-simbolico. Per questa mostra Basualdo ha realizzato un’installazione site specific in metallo, che si sviluppa per 30 metri lungo la vetrata: una forma-informe plasmata da lui, che evoca la violenza che alberga nella società argentina, mentre la fotografa di Magnum Alessandra Sanguinetti ha fotografato animali che paiono vivi ma in realtà sono morti o in sofferenza».
C’è poi chi, come Léon Ferrari, ha scelto «la chiave dell’ironia per criticare la società, la politica, la Chiesa (che in modo sotterraneo fiancheggiò talora il regime): in mostra c’è una scultura del 1965 in cui un Cristo è inchiodato a un aereo militare. E, con una mossa forse un po’ azzardata, c’è anche Lucio Fontana, italo-argentino, con bellissimi disegni (della Fondazione Fontana) del 1946, il suo ultimo anno in Argentina, in cui la violenza è rappresentata dalla rottura del suo linguaggio con la tradizione». In una sala del mezzanino va poi in scena un film di Tomás Saraceno, presentato solo alla Serpentine Gallery di Londra nella scorsa primavera: un lavoro estraneo ai suoi progetti più noti, trattandosi di un film di 60 minuti da lui girato nel deserto argentino, ricco di litio, che documenta la violenza esercitata dalle multinazionali, a caccia di questo minerale oggi preziosissimo, sulle popolazioni locali. E la sera dell’inaugurazione sarà la performance di Mariana Bellotto a evocare quella violenza: intitolata esplicitamente «Mundo de mierda», la performance vedrà lei e i quattro performer che l’affiancano, tutti seminudi e quindi vulnerabili, realizzare una coreografia con l’impiego di pesanti blocchi di ghiaccio.
