Addio a Ilya Kabakov, l’«artista totalitario» che fuggì nello spazio con ali d’angelo

È scomparso alle soglie dei 90 anni il padre del concettualismo russo. Con la moglie Emilia ha dato vita a un’opera dalla forte carica utopica

L’opera «Madre e figlio» di Emilia e Ilya Kabakov allestita nel 2000 nello Spazio culturale Antonio Ratti a Como
Angela Vettese |

Il 27 maggio è scomparso a 89 anni Ilya Kabakov. Era nato il 30 settembre 1933 a Dnipropetrovsk, in Ucraina, nell’ex Urss, città d’origine anche della moglie Emilia, con cui ha formato un solida coppia anche nell’arte. Da decenni risiedevano negli Stati Uniti, a Long Island. Ilya aveva studiato all’Istituto d’Arte V.I. Surikov di Mosca e agli inizi della carriera, negli anni Cinquanta, aveva lavorato come illustratore di libri per bambini. A quegli anni risale anche la partecipazione a un gruppo di artisti concettuali che operavano al di fuori del sistema artistico sovietico ufficiale. Dopo aver ottenuto, nel 1957, una borsa di studio al Kunstverein di Graz, in Austria, si stabilisce a New York. Qui incontra nuovamente Emilia, nata Lekach, di formazione pianista classica, che dopo essere emigrata in Israele, nel 1975 si era trasferita nella Grande Mela, dove lavorava come curatrice e mercante d’arte.

Ricordiamo Ilya Kabakov con un articolo di Angela Vettese, pubblicato nel 2000, alla vigilia di una grande mostra a Francoforte.


Dicono che sia un angelo ma è vero solo a metà: piuttosto, è come le sue opere e anche simile a certi film di Fellini: da una parte sta il sogno, dall’altra il realismo. Non dobbiamo dimenticare che ha speso la giovinezza in una casa di coabitazione, dove sua madre doveva litigare per l’uso della cucina e dove stare dieci minuti in bagno significava essere insultati da chi faceva la fila alla porta. Le ferite rendono generosi, ma anche scaltri.

Quando l’ho incontrato per la prima volta a Mosca, nel 1987, la Perestroijka non aveva ancora lavato dai boulevard il clima severo e imperiale. Ma salendo alcune rampe di scale, imboccando una piccola porta, attraversando su delle travi di legno un sottotetto, si entrava infine in quel mondo a parte che era il suo studio di allora: una soffitta in cui venivano organizzate le mostre dell’arte proibita, ma anche un loft dall’aria newyorkese con gli scaffali pieni di riviste specializzate e cataloghi occidentali. Non mi stupisce che ora viva a Long Island e che abbia voluto diventare un cittadino americano. Le sue mostre non sono più censurate ma affollate dal pubblico, come accadrà senza dubbio anche alla retrospettiva che, dal 4 dicembre, gli dedicherà il Museum für Moderner Kunst di Francoforte.

Al tempo della mia visita al suo studio non parlava ancora quel misto di tedesco, russo e inglese che è, in effetti, il suo esperanto. Comunicammo attraverso un ponte linguistico che comportava due passaggi di traduzioni, ma l’importante erano le opere, tavole grandi e piccole su cui era appeso un pentolino o dipinto un paesaggio. Una didascalia in cirillico spiegava le norme d’uso. A quel tempo Kabakov era iscritto al sindacato degli illustratori e anche i suoi quadri erano grandi illustrazioni, abbecedari della vita sovietica, ligi al dovere ma fatti con l’ironia di chi vuole che l’osservatore ne ribalti il significato.

Tredici anni dopo, nel 2000, Kabakov conserva dell’uomo che ho conosciuto uno sguardo sottile, infossato e ridente ma capace di passare in un attimo all’espressione del dubbio. Può finalmente fare a meno della sua parte più seria, un ruolo che si è assunta con amore la nuova moglie Emilia: una pianista prodigio nata vicino a Kiev, nello stesso palazzo dov’era nato anche Ilya, scappata precocemente in America e diventata poi un’esperta per le maggiori case d’asta di antiquariato russo. Si sono incontrati di nuovo dopo le prime mostre all’estero di lui, quando, alla fine degli anni Ottanta, Kabakov ha deciso di non tornare più in patria. Ora firmano molte opere insieme.
Emilia e Ilya Kabakov in un ritratto di Roman Mensing
Nemmeno Ilya ha nostalgia del suo passato. È con un senso di distacco archeologico che definisce sé stesso «Homus Sovieticus», un genere in via di estinzione e che non è l’equivalente di «russo», «ucraino» o altre definizioni geografiche. Nelle sue installazioni, progettate dagli anni Settanta ma che solo l’approdo in Occidente gli ha consentito di realizzare, ha raccontato un mondo che si stenta a credere sia esistito: il paragone più vicino nella nostra cultura è il romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo, scritto perché qualcuno sapesse che l’incredibile era davvero accaduto.

Nel tempo la sua Unione Sovietica si è trasformata in un luogo del pensiero, più che in un mondo fisico, quasi un topos come le biblioteche labirintiche di Borges o i gironi di Dante. Così il particulare di Kabakov diventa il luogo di emozioni universali: la gratitudine per la madre e l’impulso struggente di consolarne le ferite; la drammatica competizione tra poveri nel cercare di appropriarsi di una mela; l’orrore dei banchi di scuola con i loro piani obliqui, i calamai, il cassetto per riporre i quaderni e la voglia infantile di libertà; l’intolleranza, l'amore, i desideri e una prigione mentale in cui tutti potremmo cadere.

Un’occasione eccezionale per capirlo è stato il plastico esposto ai cantieri della Zisa di Palermo lo scorso anno: un riassunto in piccola scala delle sue installazioni maggiori e di quelle ancora da realizzare, accorpate in un perimetro quadrato concepito come sotterraneo senza finestre. La maquette visualizza cosa significhi l’espressione con la quale l’artista definisce la sua poetica, «installazione totale»: un ambiente interamente trasfigurato, dove ci si può muovere senza che nulla ci ri porti al mondo esterno e dove si stenta a trovare una via di uscita.

Ma qualcuno dalla prigione è fuggito, come racconta l’ambiente «L’uomo che è fuggito nello spazio» che abbiamo appena visto a Palazzo Grassi: una stanza tappezzata di giornali e con il soffitto squarciato. L’immancabile didascalia ci racconta che il suo abitante è riuscito a scappare magicamente e verso una meta ignota, spinto solo dalle molle del letto e da un’imbragatura catapulta.

È proprio questo che è successo a Ilya Kabakov: la sorte gli ha regalato un’altra vita; da buon «artista totalitario» (si definisce anche così) sostiene che il disegno sia essenziale anche per l’arte concettuale; che l’opera sia veramente buona solo quando è amata da tutti e non soltanto dagli specialisti; che sia importante seguire regole ferree. Ma i tavoli del suo nuovo studio a Long Island, una dacia di legno, sono pieni di ali per gli angeli che forse ci proteggono e per chi vuole volare, consapevole che su nessun desiderio va mai tracciata una riga nera.

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