50 anni di Studio la Città

Hélène de Franchis festeggia a Miami e in sede l'anniversario della sua galleria

Hélène de Franchis negli anni Settanta © Studio La Città
Camilla Bertoni |  | Verona

Una storia, quella di Studio la Città, che inizia con un furgoncino Volkswagen, una giovane mamma, una tata e un bimbo di pochi mesi. Era l’autunno del 1969, il viaggio portava Hélène de Franchis da Londra a Verona dove le era stato offerto di dirigere una nuova galleria d’arte, esperienza che, nelle sue intenzioni, sarebbe durata un anno o poco più. Studio la Città invece ha festeggiato il suo cinquantesimo anniversario e alla guida c’è sempre lei.

Partiamo dal nome della galleria…
La galleria era stata fondata da un gruppo di imprenditori che ne volevano fare la sede di una trasformazione culturale della città. Quando la rilevai, diventandone proprietaria, cambiai il nome in «Studio la Città» per indicare il concetto di ricerca.

Missione compiuta?
Prima di portare Fontana a Verona aspettai fino al 1973, dopo la personale di Spazzapan, con cui inaugurai nel 1969, e dopo quella di Schifano. Per Robert Mangold vennero a vedere la mostra in dieci. Ma per me ha funzionato e a Verona sono rimasta; certo mi sono resa subito conto però che se avessi voluto fare qualcosa sarei dovuta uscire dai confini. Così nel 1973 partecipai alla mia prima fiera all’estero, a Düsseldorf. Là capii che non ero così stravagante come mi vedevano i veronesi e questo mi diede coraggio: nel 1974 organizzai una mostra curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco sulla Pittura analitica. Fu un grande successo: la replicammo con gli artisti inglesi, poi con gli americani, e la galleria decollò nel circuito internazionale.

Quali sono stati gli incontri determinanti per Studio la Città?
Devo molto a Carla Panicali, direttrice della galleria Marlborough di Roma dove avevo conosciuto Fontana e da dove provenivano alcune delle importanti mostre dei miei primi anni, come quella di Dorazio e di Novelli. Sono debitrice anche nei confronti del critico Guido Ballo. Fondamentale fu l’incontro, all’inizio degli anni Novanta, con Giuseppe Panza di Biumo, con cui iniziò da subito un rapporto di reciproca stima e collaborazione: fu lui a comprare da noi a Basilea il suo primo Emil Lukas, mentre io conobbi David Simpson grazie a lui. Quando era sindaco, Michela Sironi mi chiese di aiutarla a pensare a iniziative per l’arricchimento culturale della città: fu così che la collezione Panza fu esposta a Verona. Ma le opere, che il collezionista lasciò in deposito alla città negli spazi appena restaurati del palazzo della Gran Guardia, tornarono presto a casa. Panza ritirò la collezione perché fu assolutamente scontento di come Verona le stesse gestendo. Una grande occasione persa. Un altro incontro straordinario fu quello con il collezionista Peter Schaufler. Devo anche tantissimo ai collezionisti con cui ho lavorato fin da subito a Verona, Mario Orsatti, Luciano Antonini e Giorgio Fasol.

I cinquant’anni sono caduti dunque alla fine del 2019, quando ci fu una grande mostra in galleria, «Quello che non ho venduto», mentre da voi, a Verona, ora è allestita una grande antologica di Carol Rama e la celebrazione del mezzo secolo è in corso anche alla Galleria Atchugarry di Miami con la mostra «50 years, a Day. Studio la Città, a Story».
Sono due mostre diverse. A Verona ho esposto le opere che ho tenuto per me e che ho amato di più, mentre per Miami ho pensato anche a quello che il collezionismo americano ama di più. Un’avventura curiosa: strano pensare a una galleria, non di Milano, che rappresenta l’Italia a Miami. Il gallerista Piero Atchugarry, figlio dello scultore uruguayano Pablo, era stato in galleria da noi nel 2019, e da subito mi ha proposto di «esportare» la nostra galleria e la nostra storia a Miami. Poi è successo tutto quello che sappiamo. Infine, la mostra si è inaugurata il 2 aprile scorso.

Quali artisti la rappresentano a Miami?
Tra le mie sessanta opere proposte, Atchugarry ne ha scelte una quarantina: tra gli italiani non poteva mancare Calzolari, primo artista che accoglie i visitatori, e poi Fontana, Spalletti, Paolini che ho voluto esporre tutti su un’unica parete, rigorosa e classicissima. Ho portato a Miami anche un pezzo di Verona con Igino Legnaghi e il suo magnifico tavolo in anticorodal e vetro a edizione limitata del 1972, una vera icona. L’opera di Vincenzo Castella è un omaggio all’arte e all’architettura italiane e Jacob Hashimoto ha creato un’installazione in dialogo con essa. Poi ci sono Alberto Garutti, Emil Lukas, Stuart Arends, David Simpson, Herbert Hamak, Lynn Davis, Gabriele Basilico, Lawrence Carroll, David Leverett e Michelangelo Pistoletto.

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