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100 visionari e 70 guastatori

Federico Florian

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Le biennali orientali sono diffuse, collettive e politiche

«Inseon Park» da «Root series 03» (2015). Courtesy Gwangju BiennaleUn’aura mistica e immaginifica pervade l’undicesima edizione della Biennale di Gwangju, aperta dal 2 settembre al 6 novembre, a cura di Maria Lind, direttore della Tensta Konsthall di Stoccolma. «The Eight Climate», titolo della rassegna, allude alla nozione di «ottavo clima» ideata negli anni Sessanta da Henri Corbin.

L’ottavo clima, a detta del filosofo francese, è «il luogo delle teofanie, delle epifanie divine che non volatilizzano né strappano l’anima alla sua propria visione, al contrario la fanno essere finalmente con se stessa e a casa sua». In altri termini, il mundus imaginalis della creazione, un mondo esterno a quello fisico eppure altrettanto reale.

Nella visione curatoriale di Lind, l’arte, territorio dell’immaginifico per eccellenza, si sposa alla perfezione con l’idea di tale visionaria ottava dimensione. Oltre cento gli artisti inclusi nella rassegna sud-coreana, tra cui figurano Ahmet Ögut, Amalia Pica, Anicka Yi, Céline Condorelli, David Maljkovic, Dora Garcia, Hito Steyerl, Lili Reynaud Dewar, Philippe Parreno e Walid Raad (una sola italiana, Adelita Husni-Bey).

La rassegna è sparsa in diverse sedi cittadine: la Gwangju Biennale Exhibition Hall, l’Asia Culture Center, i May18 Archives, il Mudeung Museum of Contemporary Art, l’Uijae Art Museum e il Woo Jaeghil Art Museum. Tutti gli artisti con le loro opere rispondono all’interrogativo «Che cosa fa l’arte?» (sottotitolo dell’esposizione): riflessione, dunque, rivolta al futuro della pratica artistica, descritta dalla curatrice come «un sismografo capace di rilevare il cambiamento prima di qualsiasi altro mezzo di osservazione».

Tra le attività della rassegna i cosiddetti «Monthly Gatherings» (incontri mensili), informali raduni nella città di Gwangju che prevedono, oltre a tavole rotonde, tour urbani tematici ideati dal collettivo di artisti Mite-Ugro e tenuti da architetti, antropologi, curatori. Altro progetto parallelo è l’Infra-School, un programma di presentazioni e seminari accademici che coinvolgono la rete scolastica locale (tra cui la Chosun University e la Seoul National University). La natura di questa biennale è collaborativa: in un forum nei giorni dell’inaugurazione (tra il 2 e il 4 settembre), i rappresentanti di circa un centinaio di spazi espositivi internazionali, soprannominati «Biennale Fellows» (tra questi il milanese Careof), interverranno allo scopo di condividere le proprie esperienze e discutere sull’avvenire dell’arte.

 

L’utopia delle regole

La decima edizione della Biennale di Taipei, dal 10 settembre al 5 febbraio, assume la configurazione di una rassegna caleidoscopica, che include non solo le arti visive ma anche la danza, la performance, il cinema e la scrittura, il tutto accompagnato da un programma di workshop e simposi. Fulcro della mostra, a cura di Corinne Diserens, ex direttrice del Museion di Bolzano, è il Taipei Fine Arts Museum, centro catalizzatore di una biennale diffusa, che ha luogo in diverse sedi in città, tra cui teatri e università.

A ispirare la rassegna, intitolata «Archives of the Present, Genealogies of the Future» (gesti e archivi del presente, genealogie del futuro), è il pensiero dell’antropologo statunitense David Graeber: l’esposizione mira ad attuare «una coerente critica della burocrazia istituzionale», indagando il ruolo del potere e della burocrazia (quell’«utopia delle regole» di cui parla Graeber) in relazione all’immaginazione e al pensiero radicale. Tra le opere degli oltre 70 artisti in mostra, i modellini architettonici di Peter Friedl, dalla serie «Rehousing», in cui l’artista austriaco reimmagina una serie di edifici modernisti, come la Villa Tropicale di Luigi Piccinato o la casa-rifugio di Heidegger nella Foresta Nera.

L’artista taiwanese Hong-Kai Wang, interessata a quella che definisce «politica del sonoro», presenta l’installazione «The Band of the Awful Ones», risultato di una serie di performance che esplorano il rapporto tra violenza, potere e repressione, prendendo spunto da un’ordinanza punitiva applicata nel Giappone di inizio ’900. Tra gli altri artisti in mostra, Saâdane Afif, Francis Alÿs, Tiffany Chung, Tacita Dean, Manon de Boer, Jean-Luc Moulène, Yvonne Rainer, Ad Reinhardt, Sven Augustijnen e Hannah Ryggen.

Federico Florian, 01 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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