«Non avrei rinviato le Biennali»

Parla Maurizio Torcellan, marketing manager di Apice, una delle principali aziende di trasporto d’opere d’arte, allestimento e servizi integrati

Maurizio Torcellan. Foto di Enrico Fiorese
Veronica Rodenigo |  | VENEZIA

Maurizio Torcellan, classe 1960, nato a Ferrara da famiglia veneziana e poi tornato nel capoluogo veneto dove ora vive, è il cofondatore e marketing manager di Apice, una delle principali aziende di trasporto d’opere d’arte, di allestimento di mostre e di servizi integrati per il settore. Nel portafoglio di Apice, «Raffaello» alle Scuderie del Quirinale e le tre mostre attese a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, ricalendarizzate all’11 luglio. Formatosi all’Istituto di Belle Arti di Venezia, Torcellan racconta come si sia ispirato per passione anche all’architettura e al design e come sia stato un particolare episodio a segnare l’inizio della sua attività. «Mi ero avvicinato al settore dell’arte ancora studente, quando ho assistito alla movimentazione di un’opera tra una barca e un camion al Tronchetto senza imballaggio. L’assenza di professionalità e di metodo mi è parsa inaccettabile. Sono partito così, captando la necessità di dare un servizio migliore».

Quando e dove?

Nel 1982, a Venezia, con il trasporto, spedizione e movimentazione di opere (quello che in gergo si dice «da chiodo a chiodo»). Allora questo era concepito in modo molto frammentato: c’erano aziende che si occupavano solo del trasporto, altre che realizzavano solo gli imballaggi, altre ancora che si occupavano di allestire. Già negli anni Ottanta abbiamo capito di dover offrire un servizio a 360 gradi. Altri ci hanno seguito. Apice è il risultato di quattro aziende di pluridecennale esperienza dislocate nel territorio nazionale che nel 2008 hanno deciso di fare squadra. Da quattro posizioni strategiche (Milano, Venezia, Firenze e Roma) assicuriamo una copertura in tutta Italia attraverso un sistema integrato: Apice (trasporti, imballaggi, spedizioni, depositi climatizzati), Ottart (progettazione museografica e allestimenti museali, vetrine conservative, illuminotecnica, climatizzazione), Dep Art (conservazione), Artsystem (progetti didattici). In ogni sede abbiamo caveau per il ricovero di opere oltre a esserci specializzati nella realizzazione ex novo di depositi come nel caso della Pinacoteca di Brera a Milano. Si è trattato insomma di unire queste realtà in un unico «shaker» chiamato Apice, un cocktail apprezzato nel mercato internazionale, prima realtà in Italia del settore per servizi e fatturato.

Con chi operate in Europa e oltreoceano?

Partecipiamo ai network internazionali Artim e Icefat ai quali si accede solo con alti requisiti professionali. Attraverso riunioni annuali sviluppiamo le nostre relazioni. Un esempio? Noi ci occupiamo di ritirare l’opera nel museo italiano, di condividere il tipo d’imballo, di trasporto, curiamo le procedure burocratiche necessarie alla spedizione (dogane, assicurazione, assistenza al courier che segue l’opera…) fino all’aeroporto. Giunti lì, l’opera s’imbarca sapendo che ad attenderla, all’arrivo, un interlocutore nostro partner dotato di permessi speciali la preleva sotto la pancia dell’aereo. Questo vale sia per la spedizione che per il ritiro. È una rete allargata con una condivisione dei ruoli.

Quali sono state le esperienze più gratificanti e quali le più difficili?

Seguo personalmente ogni lavoro. Mi verrebbe da citare i Bronzi di Riace, collocati nella loro attuale sede museale: una movimentazione delicata con appositi accorgimenti d’ingegneristica. O l’enorme demone di Damien Hirst per la mostra a Palazzo Grassi (nel 2017, Ndr), alto oltre 18 metri. Diviso in più parti, sono stati necessari 25 giorni per montarlo. Studiandone la preinstallazione ci siamo accorti che mantenendo l’angolazione decisa dall’artista il montaggio nella corte interna del palazzo sarebbe stato impossibile. Abbiamo dovuto girare di circa 10 gradi l’orientamento del demone prima di posizionare le basi della statua. Altre opere di grande emozione sono state l’Autoritratto di Leonardo, uscito dal suo caveau per la mostra alla Reggia di Venaria, nel 2012, per il quale abbiamo costruito un’apposita vetrina climatizzata in collaborazione col Politecnico di Torino, i grandi cartoni di Michelangelo, le statue di Canova, la «Canestra di frutta» di Caravaggio sino alla mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale. Ogni opera necessita di uno sguardo dedicato a lei sola.

Come si svolgono i rapporti tra i progettisti e le vostre maestranze specializzate?

Siamo predisposti a integrare tutte le professionalità. Abbiamo incontrato grandi firme dell’architettura come Renzo Piano, Mario Cucinella, Michele De Lucchi, Gae Aulenti. Sono nomi importanti con i quali è facile dialogare in modo costruttivo quando si avvicinano al settore museale. Ci sono però anche studi meno conosciuti, ma specializzati nell’allestimento. Un’esperienza recente e appassionante è stata la collaborazione con l’architetto Diego Giachello e il suo studio torinese l’Officina delle Idee con il quale lo scorso autunno abbiamo realizzato una vetrina lunga 40 metri per esporre e conservare il fregio Palagiano (appena restaurato) al Castello di Racconigi. È stata una sfida difficile per la nostra Ottart. In generale, alla base del rapporto con architetti e conservatori c’è un grande lavoro di ricerca sui materiali a cui dedichiamo molte risorse: li testiamo nei nostri laboratori di prototipazione, prova e collaudo. Sono passaggi che condividiamo con progettisti, restauratori, chimici, ingegneri e che trasmettiamo al nostro personale in apposite academy.

Per esempio?

Per le vetrate siamo stati tra i primi a investire sui materiali antiriflesso (vetro e plexiglas). Inoltre utilizziamo alveolari in alluminio o carbonio resistenti e leggeri al tempo stesso così da mantenere il clima ideale per la conservazione delle opere. Anche sulle casse per il trasporto abbiamo un ottimo range di qualità. Di per sé la cassa è un oggetto molto costoso da realizzare: avendo scelto di noleggiarle consentiamo al museo, al collezionista o al gallerista di usufruire di un servizio top a un costo contenuto.

Come avete affrontato l’emergenza sanitaria?

Abbiamo reagito con anticipo rispetto alle prescrizioni di legge e attivato lo smartworking dei nostri dipendenti. Eravamo autorizzati a operare per nostro stesso codice Ateco e abbiamo assicurato servizi come i rientri dei prestiti di mostre terminate con coperture assicurative in scadenza. Abbiamo anche messo a disposizione i nostri depositi nei casi in cui le opere non potessero proseguire per risolvere il rischio di soste non adeguate.

Come vede la ripartenza?

Vorrei sentire da parte delle istituzioni non una lamentazione su quanto è stato perso bensì un segnale positivo per prospettive diverse, l’occasione di fare meglio rispetto al passato. Oggi si può ripensare a fruizioni nuove e diverse degli spazi espositivi, più adatte rispetto ai precedenti affollamenti. Non condivido ad esempio il fatto di aver rinviato la Biennale d’Architettura facendo così slittare la Biennale d’Arte al 2022. Non ne vedo il motivo. Ciò che mi fa più rabbia è che sento passare la cosa sotto silenzio.

Ma non è vero che la fattibilità allestitiva sarebbe stata compromessa dall’emergenza sanitaria? Pensa forse che le ragioni dello slittamento siano altre?

Le ragioni sono sicuramente altre. Avevamo padiglioni che ci avevano confermato il lavoro e la fattibilità per i trasporti era garantita. Da tecnico posso risponderle con un esempio. Di recente a Milano, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, abbiamo allestito la mostra di Emilio Vedova. Il grande studio di architettura Alvisi Kirimoto aveva progettato un allestimento (tra cui una struttura lunga 40 metri in acciaio e alta 16) che normalmente prevedeva 23 giorni di lavoro. Per vari motivi ci siamo trovati a dover realizzare tutto in 5 giorni. Ci siamo organizzati con tre turni di lavoro e abbiamo coinvolto 67 persone, 5 gru e 8 elevatori. Il fatto di sentir parlare di difficoltà nell’organizzare una mostra, seppure così complessa come la Biennale, con quattro mesi ancora a disposizione mi lascia abbastanza perplesso.

La Biennale spiega la decisione anche considerando la pluralità dei soggetti: nel panorama internazionale le ripercussioni della pandemia hanno seguito tempistiche diverse…

Capisco perfettamente. Queste difficoltà per il nostro settore sono però sfide che è giusto affrontare. Le biennali nascono per soddisfare lo spirito e l’intelletto delle persone. Quest’edizione poteva dare un esempio di come l’architettura può essere interpretata in un momento di crisi. C’è un estremo bisogno che gli architetti ripensino i luoghi espositivi, magari con aperture ai giovani e ovviando alla rigidità di organizzare un padiglione come si è sempre fatto.

Quali impegni vi attendono?

Il completamento delle mostre interrotte dall’epidemia, con le opere custodite nei nostri depositi climatizzati, lo smontaggio e la riconsegna delle tante mostre aperte prima del Covid-19, molte delle quali hanno subito uno slittamento prendendo il posto di quelle programmate per l’estate-autunno, e l’allestimento di quelle spostate a settembre-ottobre. Per il mercato estero, molti prestiti sono in attesa di conferma, alcuni sono già stabiliti da settembre a dicembre. Pensiamo comunque che sia determinante l’atteggiamento dello Stato e delle istituzioni attraverso investimenti veloci e concreti nel settore dell’arte. Dobbiamo affrontare le nuove sfide e progetti che impongono le potenzialità del patrimonio che abbiamo ereditato e che dobbiamo continuare a valorizzare e divulgare.

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