È morto Hermann Nitsch

Quando la performance era un fatto di sangue: l’autenticità dell’arte partecipativa di Hermann Nitsch è agli antipodi di certa estetica relazionale (culto laico e asettico della correttezza politica) oggi di moda

Hermann Nitsch
Franco Fanelli |  | Vienna

Quando gli si chiedeva in quale Paese il suo lavoro fosse stato meglio compreso rispondeva senza esitazioni: «L’Italia». Lo ribadì in un’intervista con Flavia Foradini, pubblicata su «Vernissage» nel dicembre 2006: «Penso siano importanti le radici comuni, in particolare del cattolicesimo e del Barocco, e gli italiani danno spazio ai sensi, non li temono, li sperimentano, non come in Austria, dove di tanto in tanto ho ancora problemi, e ogni tanto mi si accusa ancora di pornografia, di blasfemia, di seviziare animali. In realtà non faccio altro che far avvenire la loro macellazione nell’ambito del flusso drammaturgico delle mie Azioni. Nel complesso però la situazione è migliorata in Austria, anche con la Chiesa».

Non è soltanto questione di «sangue e anema», ma della comune convinzione che l’arte non inizi e non finisca in una tela o in una mostra, in un atto meramente esecutivo, bensì partecipativo, da parte dell’autore-officiante e del pubblico coinvolto nell’esperienza, se il grande sacerdote del culto per decenni praticato da Hermann Nitsch sia Peppe Morra, che ospita nella sua Fondazione a Napoli un museo dedicato all’artista austriaco scomparso il 18 aprile scorso all’età di 83 anni. Eppure anche la cattolica e democristiana Italia, nel 1974, pretese e ottenne l’espulsione di Nitsch dal Bel Paese in occasione della Aktion n. 45, proprio presso lo Studio Morra dell’allora gallerista Peppe Morra, che ricorda: «Durante l’azione in via Calabritto intervenne la polizia, c’erano circa trecento persone che andavano e venivano e quindi tutta la scala del palazzo si era imbrattata di sangue. Gli inquilini si lamentarono allarmati e fecero intervenire le forze dell’ordine. Quando Hermann li vide, fece cenno ai musicisti di suonare ancora e più forte, lui avrebbe continuato».

La componente mistica e religiosa è elemento fondamentale dell’Azionismo viennese, un capitolo a sé dell’arte performativa e della Body-art. Il 1962, anno della performance collettiva di Nitsch, Otto Mühl e Adolf Frohmer svolta a Vienna è tradizionalmente identificato come la data di nascita dell’Azionismo. Un po’ ovunque nel mondo, gli artisti cercavano in quel periodo di abbattere i limiti della pittura da cavalletto; Allan Kaprow, egli stesso protagonista della performance-art, parlò e scrisse di Eredità di Jackson Pollock, cioè dell’artista che aveva tramutato la pittura in azione, annunciando l’avvento di artisti che «ci renderanno partecipi di una serie di eventi e avvenimenti inauditi». Ma nell’Austria che aveva ancora addosso il marchio dell’annessione alla Germania nazista, era altrettanto forte l’eredità della psicanalisi; e Nitsch è stato un potente evocatore degli archetipi junghiani.

Fu una discesa alle Madri, un percorso di negazione della soggettività dell’artista che si trasfigura, insieme, in elemento dell’opera, officiante e agnello sacrificale, anche attraverso la degradazione del proprio corpo. Come altri Azionisti, anche Nitsch partì dalla pittura; ben presto il colore rosso dei suoi «dipinti» divenne sangue vero. Nasce l’Orgien Mysterien Theater, in cui il pubblico, nelle intenzioni dell’autore, viene condotto «attraverso l’organizzazione rituale di forme sensuali elementari per fare un passo verso una vita intesa come continua festa celebrativa». Nel sacrificio rituale di animali (giunse a impiegare, crocifiggendoli, squartandoli, riempiendone le carcasse di fiori, aspergendo se stesso e i partecipanti con il loro sangue quaranta cadaveri di agnelli), nell’orgia di suoni, odori, riti, esperienze estatiche, si compiva la nuova stagione dell’arte totale e ancora una volta non si potè fare a meno dell’eterno ritornante, Richard Wagner, ben presente, oggi, nelle post-umane saghe di Matthew Barney.

Nitsch concretizza così un sincretismo culturale fra tragedia greca, politeismo e cristianesimo: «Nelle nostre azioni, spiegò, la poesia diventa pittura, la pittura diventa poesia, la musica diventa azione, la pittura d’azione diventa teatro». Pianete e sindoni sulle quali il sangue versato in quei riti si ossidava in rugginose varianti erano l’eco di quell’arte estrema che si ricomponeva in una dimensione installativa o nella fissità dell’opera-reliquia. Solo in questo momento l’opera di Nitsch viene accettata; nel 2016 il Duomo di Prato giunge ad accogliere una sua «Crocifissione».

Più difficile, per il pubblico, accettare ciò che ha dato origine a quei drappi incrostati di sangue. Dieci anni prima il Palazzo delle Esposizioni di Roma, la città nelle cui viscere oggi visitiamo i mitrei in cui scorreva il sangue taurino del culto cui probabilmente venne iniziato lo stesso imperatore Costantino (pure fondatore del cristianesimo come religione di stato) potè ospitare una retrospettiva dell’ormai celebre azionista solo a patto che non venissero esibiti i video con la registrazioni degli happening. Furono le associazioni animaliste a chiederlo, nel nome della dignità ferita degli animali utilizzati.

«Per me questa contestazione è un vero paradosso, replicò, fra gli altri, Lorand Hegyi, al’epoca direttore del Museo d'arte moderna di Vienna e curatore della mostra. Nitsch in Austria è soggetto a continui attacchi dell'estrema destra; gli ambientalisti forse non sanno che due mesi fa Nitsch ha realizzato una grande performance in uno spazio pubblico a sostegno di Greenpeace; due suoi grandi quadri sono esposti nella sede del Partito dei Verdi austriaco. Eppure qui lo si accusa di aver torturato degli animali. Posso dire con certezza che mai in vita sua Herman Nitsch ha torturato o ucciso un animale. Egli utilizza simboli culturali molto antichi, anzi arcaici e basti pensare all'"Agnus Dei" invocato ogni giorno nelle messe cattoliche, dove si parla anche di sangue bevuto e carne mangiata nei simboli dell'ostia e del vino. Penso che l'arte di Nitsch sia universalista e panteista; egli vuole partecipare al processo della natura di cui noi, in quanto esseri umani, siamo parte con tutte le conseguenze: ci nutriamo di carne, uccidiamo in quanto animali degli altri animali, proprio come un gatto o un cane che si cibano anch'essi di carne, ma questo fa parte della nostra natura e non si può parlare di sadismo, di perversità o di torture. Si tratta semplicemente di prendere coscienza del fatto che siamo una creazione naturale e abbiamo il dovere di controllare noi stessi».

Intervenne anche Achille Bonito Oliva: «Nel caso di Nitsch, l'animale viene recuperato già morto, come oggetto inerte e attraverso un processo alchemico, sotto la mano dell’artista, subisce una sorta di resurrezione, precisa il critico. La putrefazione e la morte colpiscono lo spettatore, scandalizzato perché vive in una società inodore e insapore, dominata da una televisione che vetrinizza e spettacolarizza ogni cosa; così lo spettatore si aspetta anche da una mostra un’immagine bloccata e controllata; in questo caso, però, l’azione non si svolge in senso orizzontale ma in profondità. Qui scatta lo scandalo, la situazione estetica che interdisce il voyeurismo dello spettatore e lo colloca in una posizione interattiva, obbligandolo anzi a intervenire». Più semplice, indubbiamente, interagire con una giostra di Carsten Höller o con una tastiera del nostro pc.

Oggi che l’arte relazionale è diventata una sorta di veicolo estetico della correttezza politica è difficile, per i cultori delle nuove «religioni esperienziali», accettare tra i protoparenti della corrente oggi dominante anche il visionario artista austriaco. Un nonno un po’ imbarazzante, in fondo, un po’ orco un po’ elfo. Meglio, per tanti, abbandonarsi all’abbraccio e allo sguardo magnetico e inodore di Marina Abramovic, che della performance si autodefinisce la nonna.
Eppure Nitsch è stato uno degli ultimi, imprescindibili eredi di quella Vienna che Hermann Broch, come ricordava Jean Clair, definiva il  «luogo di una “gaia apocalisse”», laddove l’aggettivo “gaia” è lo stesso che Nietzsche aveva applicato alla sua visione della scienza. «Significa che Vienna era il luogo della presa di coscienza di una fine delle cose e di un punto culminante del pensiero. Le acquisizioni della modernità viennese sono intese come fine di qualche cosa e nello stesso tempo il compimento. Il trionfo è contemporaneamente lo scacco nel pieno del trionfo. Sotto questo punto di vista Vienna è stata il modello di tutto ciò che il XX secolo ha potuto compiere».

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