A Palermo grandi nomi internazionali

Il percorso a Palazzo Reale ricerca nelle opere esposte una dimensione più autentica e responsabile

«Sfera di giornali» (1966 - 2022) di Michelangelo Pistoletto e «Venere degli stracci» (1967) di Michelangelo Pistoletto
Giusi Diana |  | Palermo

L’ultimo progetto espositivo della Fondazione Federico II, è una mostra collettiva dal titolo «.ЯƎ», aperta a Palazzo Reale fino al 31 ottobre. Nella Sala Duca di Montalto sono allestite 28 opere di artisti italiani e internazionali: Alberto Burri, Saint Clair Cemin, Tony Cragg, Zhang Hong Mei, Anselm Kiefer, Jeff Koons, Sol LeWitt, Emil Lukas, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Tania Pistone, Andres Serrano, Ai Weiwei e Gilberto Zorio. Tra tutte, l’iconica «Venere degli stracci» di Pistoletto, «Black Supper» di Serrano e il bronzeo «Testimone», di Paladino.
Ecco come ce la racconta Patrizia Monterosso, direttore generale della Fondazione Federico II.

Il titolo della mostra è già una dichiarazione di intenti: che cosa indica «.ЯƎ»?
Il titolo della mostra evoca da subito il senso del progetto: l’esigenza e lo slancio vitale a rielaborare e riorganizzare le proprie azioni in seguito a eventi, al contempo stravolgenti, disorientanti e annichilenti come la pandemia, la regressione democratica, la guerra. «.ЯƎ» è una mostra concreta, non conformista e con una grande potenza artistica. Un evento culturale pensato come invito implicito a trasformare la battuta di arresto forzata che l’Umanità ha subito, in direzione di un recupero di dimensioni più autentiche e responsabili. Ammirare opere di grandi artisti internazionali in prima linea nell’arte contemporanea, negli spazi sublimi di Palazzo Reale di Palermo, consente l’immersione in una dimensione unica, e insieme una grande opportunità di riflessione. Spostare l’orientamento dalla sola dimensione dell’immagine a quella della realtà, rappresenta ciò che la mostra si prefigge. L’overdose di immagini del mondo contemporaneo e del mondo virtuale fa sì che il vero assente sia il reale corpo del mondo, che la nostra coscienza (per semplificare) opacizza fino a renderlo assente. Il rischio contro cui opporre RESISTENZA, è una civiltà della semplificazione in cui l’arte finisce per essere concepita come rappresentazione effimera della realtà. Tenere insieme la doppia dimensione personale e collettiva ha risvegliato le coscienze e ha rivelato le profonde carenze della nostra maniera di pensare e di concepire noi stessi nel mondo, nel rapporto con gli altri, con la natura. D’improvviso è come se un’onda d’urto inaspettata avesse declassato le nostre spiegazioni dogmatiche. Ricominciare ad interrogarsi e a procedere nel solco del discernimento di ciò che è di fondamentale importanza per la condizione umana, ci ha catapultato in una prospettiva di celebrazione della vita proprio nel momento in cui abbiamo assistito alla morte causata da una pandemia non calcolata, non controllata, non controllabile. La domanda che la Fondazione si è posta nel triste periodo di «chiusure» e di «riaperture» singhiozzanti, è stata come ripensare al nostro progetto di mostra. Della storia recente che cosa rimarrà?

La mostra espone opere di grandi nomi dell’arte contemporanea italiana e internazionale. In che modo sono stati scelti? Ci sono stati contatti diretti con loro?
Sono sedici artisti, sedici personalità culturali differenti dell’arte contemporanea che dagli anni Sessanta ad oggi si sono fatti interpreti della nostra epoca. «.ЯƎ» non è un racconto univoco, al contrario, accoglie le differenti e complesse visioni dell’arte e della realtà. Ventotto opere in mostra che enfatizzano lo stupore e la meraviglia nel mondo per non essere sopraffatti dalle ferite dei nostri tempi, quali la disumanizzazione dilagante, le guerre, la pandemia. L’allestimento presso le Sale Duca di Montalto a Palazzo Reale evita ogni scorciatoia tipica dei fondamentalismi per accogliere la ricchezza delle differenze contro una lettura che ammette un solo linguaggio, una sola voce, una singola storia. Opere che adottano la linea di un «Umanesimo» preparatorio e si aprono a nuove fasi di «Rinascimento». Alberto Burri, Saint Clair Cemin, Tony Cragg, Zhang Hong Mei, Anselm Kiefer, Jeff Koons, Sol LeWitt, Emil Lukas, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Tania Pistone, Andres Serrano, Ai Weiwei e Gilberto Zorio. Artisti che, a proprio modo, hanno travalicato le sclerotizzazioni delle visioni del mondo recuperando il senso profondo tra arte e concetto, tra concetto e parola, tra visione individuale e collettiva, tra atroce e banale, tra etica e critica sociale. Artisti che hanno, certamente, il merito di avere concepito l’arte come leva di resistenza a una civiltà connotata spesso dalla semplificazione tanto da ridurre, talvolta, l’arte a rappresentazione effimera della realtà.
«Human Conditions» (2018) di Zhang Hong Mei
Quali opere sono state ripensate appositamente per Palermo?
Due sono gli artisti che manifestano un forte legame con Palermo. Primo fra tutti Michelangelo Pistoletto con la «Sfera di giornali», opera del ’66, che funge quasi da soglia della Sala Duca di Montalto. Un’opera storica con una forte carica di attualità. Nel 1966 Pistoletto fece rotolare per le vie di Torino una grande sfera realizzata con fogli di giornale i cui titoli con le notizie di quei giorni erano in parte leggibili. Quell’azione, documentata da uno storico video, «Sculture di passaggio» (era il titolo della performance), faceva irrompere nello spazio urbano il gesto dell’artista e la realtà quotidiana, tra di loro fortemente interdipendenti così come teorizzato proprio in quei mesi da Germano Celant con l’etichetta, fortunatissima, di Arte povera. Quella sfera è stata poi riproposta altre volte, sempre uguale nella concezione e sempre diversa nella realizzazione. Un work in progress che pone in continuità le sperimentazioni degli anni Sessanta con quelle d’oggi attraverso una forma elementare dinamica arricchita in questa occasione dalla presenza di un QR code, legato all’opera per la prima volta, che svela la complessità e la profondità della storia di quest’opera/azione. Un altro artista è poi la catanese Tania Pistone con la sua «Rongorongo» dove la scrittura ancestrale diviene protagonista di una composizione che in una tessera dorata (l’opera si caratterizza per un fondo dorato) di un mosaico (che rimanda ai mosaici della Cappella Palatina) crea un bassorilievo dove l’essenzialità dei segni è generativa di nuovi linguaggi e di nuovi contenuti. “L’alfabeto possibile” diviene potente e generativo di infinite combinazioni e si trasforma in meta-scrittura. Scrittura come esercizio di riflessione e meditazione, così come avviene nella scrittura svolta dal monaco che è anch’essa esercizio meditativo.

Quali opere/artisti in mostra hanno un legame con la Sicilia?
Un posto speciale in mostra lo occupano tutte le opere. La Fondazione Federico II, anche questa volta, non poteva però tralasciare, pur guardando a un orizzonte internazionale, il legame con la propria terra (e con il Cretto di Gibellina Ndr). Nel Grande Bianco Cretto in mostra, quindi, Alberto Burri, rimanda il visitatore all’elaborazione di un lutto per le ferite del suolo. Burri è il primo artista a riusare lo scarto del mondo come techne. E poi riflette sulla sostanza di quel fare che è, appunto, techne in quanto ars: per lui la lingua sperimentale è l’attitudine classica del linguaggio. Un utilizzo della materia povera che la rende splendida e vitale. Arte che diviene azione stendendo velari vivificanti sulla terra ma anche attorno ai corpi e alle nostre vite, com’è il caso di Zhang Hong Mei, per muoversi nella direzione opposta alla disumanizzazione del postumano, di una «Human condition» (titolo dell’opera) contro lo smarrimento delle libertà fondamentali. La Fondazione, nei mesi precedenti l’inaugurazione di «.ЯƎ» ha avuto, seppur a distanza, un’intenso scambio di idee con gli artisti, mossi dal medesimo presupposto: il confronto dialettico tra la memoria dell’antico e lo sguardo aggiornato sul presente, tratto caratteristico di Palazzo Reale e della Cappella Palatina, in cui convivono le straordinarie meraviglie architettoniche e il tema dell’integrazione e del multiculturalismo, sempre vivo e attuale. Un’altra opera presente in mostra con una forte connotazione identitaria è «Skull» di Tony Cragg. Qui il sorprendente volume scultoreo di Skull e i suoi valori poetici, che vanno dalla vanitas al memento mori, sono attribuibili alle qualità figurative antropomorfe dello scheletro e pongono in evidenza l’equilibrio tra forma e contenuto, oltre il confine tra visibile e non visibile. La scelta delle opere in mostra diviene «.REstituzione» della cura che compie l’arte per il risanamento del vulnus dell’uomo e della storia. Gli atroci fatti di guerra che viviamo hanno indotto la Fondazione Federico II a guardare con attenzione all’arte acuta di Anselm Kiefer. L’artista procede dalle ferite della storia che possono divenire, ancora oggi, ferite sanguinanti per l’Umanità. Il suo aut aut non è più rivolto alla rappresentazione della realtà, ma a ciò che ha prodotto il nazismo, la carneficina operata e l’oltraggio della vita, derivanti da fondamentalismi del pensiero e iperindividualismi folli. Nelle due opere in mostra si leggono chiaramente le tracce della violenza per rinverdire la memoria di errori e orrori che non possono e non devono essere dimenticati; un’arte che può provocare turbamento. Querste sono opere che fanno i conti con un passato che deve essere ricordato, nella sua atrocità, dalla coscienza collettiva. «.ЯƎ» è una mostra inedita, suggestiva e di ampio respiro internazionale che si è nutrita anche grazie alle collaborazioni con gli enti prestatori e i curatori degli artisti. Penso all’Archivio di Giuseppe Penone con il quale abbiamo intrattenuto un proficuo scambio.
«Una scultura» (1991) di Claudio Parmiggiani
In che modo si articola l’allestimento negli spazi della Sala Duca di Montalto?
La mostra si sviluppa partendo dal tema dei diritti civili e della libera e creativa espressione artistica. Ai Weiwei è presente con l’opera «Sunflower Seeds» (costituita nella versione alla Tate Modern da 100 milioni di semi di girasole in porcellana; a Palermo i semi sono 850, Ndr) e  con «Finger». La prima esprime la denuncia di uno sviluppo economico che sacrifica culture millenarie e testimonia un’arte antica prestigiosa e raffinata. All’opera fa da sfondo «Finger» per dichiarare che la vita offesa richiede la contrapposizione di gesti ed espressioni forti. Subito dopo tocca alla «Venere degli stracci» e alla «Sfera di giornali» di Michelangelo Pistoletto, uno dei maggiori protagonisti dell’arte del nostro tempo, un testimone privilegiato e un interprete sensibile di una stagione straordinaria che ancora si riverbera con forza nelle pratiche e nei processi d’oggi. Se «Sfera di giornali», ancor più nella sua veste inedita qui a Palermo, abbatte i confini tra azione e contemplazione, la «Venere degli stracci» mette in crisi l’aura sacrale dell’arte rileggendo il classico attraverso il quotidiano. «Balloon Dog» è l’opera-icona di Jeff Koons. Un vero e proprio feticcio del rapporto dell’arte con la vita che riattiva il ruolo della scultura, attraverso la relazione fra l’oggetto infantile decontestualizzato e lo spazio, che ingloba grazie alle superfici specchianti, inclusive e democratiche. Una lucentezza che esprime insieme fragilità e potenza nel rendere eterno il respiro dell’uomo. La dimensione terrena e ultraterrena è invece presente nelle opere di Mimmo Paladino con «Hortus conclusus». Qui Paladino indaga un tema iconografico di origini antichissime e rielabora un topos della cultura medievale, in una dimensione a lui congeniale, che gli consente di associare l’idea del giardino a quella di figure totemiche e ascetiche. Zorio, con la sua «Monotype», quattro elementi a forma di stella, dati dalla giustapposizione di alluminio, ferro, bronzo e rame, offre possibilità di orientamento per l’uomo nello spazio e nell’oscurità e manifesta una riflessione sulla forza cosmica degli elementi e sulla loro energia primaria. La scultura «Skull» di Tony Cragg misura la visione dello spettatore con una installazione in cui si condensa la duplice attenzione dell’artista per la materia e per la sua cancellazione. Realizzata in alluminio, vive lo spazio della Sala Duca di Montalto regalando un dinamismo straordinario nella sua grandezza di centonovanta centimetri. Ci sono poi sculture che «de-gerarchizzano» i materiali e danno vita a nuove entità artistiche rispettando le lezioni della natura. Nello specifico, l'opera di Saint Clair Cemin, «Sphere», scultura in marmo che con un linguaggio iconico di influenze sospese tra antico, moderno e contemporaneo, mira a cogliere, oltre il visibile, per sorprendere con un linguaggio scultoreo in divenire. Va oltre i confini, tra pittura e scultura, per connettersi alla sperimentazione della materia e della sua trama, l’opera «Blue Heart #0987» di Emil Lukas, segnata da una moltitudine di segni che si affastellano e si intrecciano fino a confondersi. Caos e Cosmo convivono nell’opera in una visione in cui lo sguardo dell’artista e del fruitore sono protagonisti. Dallo schema intricato e ossessivo di segni, che ci pongono dinanzi al mutamento complesso della materia.

In contemporanea a «.ЯƎ», la mostra «For Freedom» di Steve McCurry, allestita negli Appartamenti Reali fino al 17 luglio, vi vede impegnati sul fronte della lotta per i diritti umani e in particolare delle donne. Quali altre iniziative state mettendo in campo per sensibilizzare il pubblico su questi temi?
«For Freedom», che sta registrando un numero incredibile di visitatori, è la narrazione fotografica di un dramma in pieno svolgimento attraverso 49 immagini. McCurry da quarant’anni racconta l’Afghanistan «testimoniando le donne afghane tra violenze, miserie, speranze»: un’attenzione, mai come adesso così attuale, che non è catalizzata in modo diretto sulla guerra, ma sulle conseguenze drammatiche, documentando lo stato di disagio interiore e di distruzione delle donne, che hanno perso ancora una volta ogni diritto allo studio e alla vita sociale. Questo tema ci consentirà, nel prossimo mese di giugno, di coinvolgere studenti universitari impegnati nel dottorato in diritti umani, nonché docenti che insegnano nello stesso ambito disciplinare. E per questa ragione abbiamo deciso di coinvolgere anche l’artista cinese Zhang Hong Mei che con la sua «Human Conditions», opera allestita in Sala Duca di Montalto per la mostra «.ЯƎ», riesce a fare affondi che sono critica sociale e rivendicazione. È un’arte che possiede un effetto di grande teatralità e a cui Zhang Hong Mei affida il proprio giudizio critico sul presente e la sua personale visione delle attuali questioni sociopolitiche, com’è la guerra ai nostri giorni.

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