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Particolare della parete della cappella principale della tomba di Neferhotep. © Foto di Mario Verin

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Particolare della parete della cappella principale della tomba di Neferhotep. © Foto di Mario Verin

Tebe continua a stupirci

A Luxor l’Università di Chieti opera nello scavo della tomba di Neferhotep

Giulia Castelli Gattinara

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L’Università di Chieti scava a Luxor in Egitto e riporta alla luce una delle tombe nella necropoli dei Nobili, tra la valle dei Re e il tempio di Hatshepsut. L’Eldorado dell’archeologia continua a stupirci e nella stagione invernale si trasforma in un immenso cantiere, con decine di équipe internazionali al lavoro, a cominciare dalla monumentale ricostruzione del tempio di Amenofi III, dietro ai colossi di Memnone.

Le pendici della montagna tebana, sulla riva occidentale del Nilo, diventano un via vai di operai, secchi e carriole per smuovere la terra e svuotare le gallerie. Non a caso il toponimo «Khokha», località che ospita lo scavo italiano dell’Università di Chieti diretto da Oliva Menozzi, significa collina dei cunicoli comunicanti.

Appena lo scorso ottobre l’ennesimo ritrovamento, a pochi metri dalla missione italiana, trenta sarcofagi intatti, tutti finemente dipinti, risalenti alla XXII dinastia (1000 a.C. ca). Con il ministro delle Antichità e Turismo Khaled el-Anani a presiedere l’evento, giustamente inorgoglito dal ritrovamento compiuto dal team egiziano di Mostafa El-Wasiri, segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità.

Negli ultimi anni, ad accelerare le ricerche è stato l’intervento di evacuazione dei villaggi ai piedi della montagna, con forte disappunto degli abitanti costretti a trasferirsi nel moderno paese di Qurna El-Gedida (Nuova Gurna). Ora la montagna tebana è davvero «blindata» e gli studiosi stranieri, che qui sono di casa da almeno duecento anni, lamentano una restrizione delle libertà (non si fa un passo fuori dai percorsi turistici senza autorizzazione) e una burocrazia sempre più limitante.

L’obiettivo è incoraggiare le missioni egiziane, attualmente quattro, benché la maggior parte dei finanziamenti venga dall’estero e l’economia locale ne tragga un considerevole beneficio. Nel caso della tomba di Neferhotep, la cosiddetta TT49 (acronimo di Tomba Tebana n. 49), il ritrovamento non è così spettacolare, ma dal punto di vista scientifico è forse più interessante. «Ciò che rende speciale questa tomba, spiega Menozzi, è il palinsesto di culture e fasi storiche che si susseguono in un arco di tempo che va dalla XVIII dinastia (1300 a.C. ca) all’epoca tolemaica, e più oltre al periodo copto. Con il riutilizzo degli stessi ambienti e la loro trasformazione secondo le necessità del momento».

Una documentazione unica, che consente di identificare le pratiche sociali con cui l’élite tebana affrontava il tema della morte a partire dall’Antico Regno. Da una prima lettura delle pitture, sembra appartenere a questo periodo la tomba appena individuata. Se l’egittologia ha una storia lunga, l’archeologia in senso lato, intesa come studio sistematico delle fasi di frequentazione di un sito attraverso uno scavo stratigrafico, è recente.

Da un punto di vista scientifico ci si aspetta ancora molto, tanto che oggi è divenuta obbligatoria la presenza di un archeologo all’interno dei team che chiedono l’autorizzazione a scavare. Nel complesso funerario di Neferhotep lavorano tre gruppi contemporaneamente: l’egittologa argentina Maria Violeta Pereyra, direttore del progetto, conduce l’esegesi delle pitture della cappella funeraria principale (TT49) affiancata da Antonio Brancaglion, egittologo, curatore della sezione egizia del Museo Nazionale di Rio de Janeiro, tristemente noto per l’incendio del 2018 che ne ha devastato la collezione.

L’équipe tedesca di restauratori guidata da Christine Verbeek e il team italiano dell’Università di Chieti si occupano dello scavo delle altre tombe. Un ipogeo mai del tutto esplorato, nonostante la sepoltura di Neferhotep fosse stata visitata dai pionieri dell’Ottocento: Edward William Lane, Jean-François Champollion, Ippolito Rosellini e John Gardner Wilkinson, i quali avevano ammirato le pitture e la vivacità dei colori fino a quando qualcuno fece un falò delle mummie accatastate all’interno, ricoprendo le pareti di una patina nera.

Per riportarle alla luce, l’archeologa Verbeek ha usato per la prima volta il laser, come lei stessa spiega: «Ero davvero spaventata dal lavoro, le pitture erano quasi invisibili. Inizialmente abbiamo provato le tecniche conosciute che si usano in questi casi, ma nessuna sembrava efficace. La copertura nera era grassa e resistente a causa degli oli bruciati e dei bendaggi delle mummie. Allora abbiamo pensato al laser e siamo rimasti sbalorditi dal risultato».

L’energia del fascio di luce viene assorbita dallo strato nero, ed espandendosi lo stacca dalla superficie sottostante, più chiara, senza danneggiare la pittura. «Apparentemente sembra facile, in realtà è un’alchimia molto delicata. La ditta Cleanlaser Werk II ha costruito uno strumento apposito, leggero e con la potenza modulabile. Ma la cosa più difficile è stata ottenere i permessi dal Cairo. Credo che ancora oggi siamo gli unici a utilizzarlo».

Il patrimonio iconografico, ora visibile quasi nella sua interezza, suggerisce una nuova comprensione di quel delicato periodo politico conosciuto come epoca di Amarna (1372-1354 a.C.), quando la potente città di Tebe, legata al culto di Amon, si scontrò con il faraone Amenofi IV (Akhenaton), autore di una controversa riforma religiosa. L’egittologa argentina interpreta il tentativo riformista del faraone come strategia per contrastare lo strapotere tebano dei sacerdoti di Karnak. Sarà poi il giovane Tutankhamon a chiudere il tempo di Amarna e restaurare il culto di Amon.

Quello che sembra raccontare la tomba di Neferhotep, è la figura di un personaggio che ha avuto un ruolo chiave nel conflitto di potere tra l’aristocrazia tebana e il faraone, originario del medio Egitto. Senza dubbio Neferhotep apparteneva a un’influente famiglia connessa al tempio di Karnak, tanto che questo appare dipinto nella cappella funeraria, ed è l’unica raffigurazione esistente in tutta la necropoli. Inoltre la fluente capigliatura bianca del dignitario ne indicherebbe l’età avanzata, un uomo di esperienza, forse un diplomatico in una fase politica così turbolenta, durante la quale lo stesso faraone preferì allontanarsi da Tebe.

Anche alla moglie Merit-Ra viene assegnato un riguardo speciale. La scena della ricompensa, in cui la regina porge alla nobildonna la collana preziosa, simbolo di vita eterna, è unica. A fianco è raffigurato il re che porge la stessa collana a Neferhotep. L’egittologa Pereyra spiega perché è importante: «Credo che questa immagine del re che ricompensa i nobili sia l’espressione di una costruzione teologica realizzata per sostenere il potere politico del momento, a beneficio dei nobili, nella mediazione con il faraone».

Un altro tipo di esegesi è quella studiata dagli archeologi italiani, i quali hanno liberato sale, pozzi funerari e sepolture portando alla luce un ricco bagaglio di informazioni. Ambienti depredati e riutilizzati in fase successive, dove alloggiavano anche i parenti di Neferhotep, rappresentati in rilievo ai lati del padrone di casa e della sua sposa. A cominciare dal corridoio che conduce alla tomba dell’usurpatore, appellativo assegnatogli dall’americano Theodore Davies che negli anni Venti aveva notato che qui il nome di Neferhotep era stato cancellato.

Dal cortile esterno del complesso funerario si aprono gli ingressi ai cunicoli che conducono a nuove sale, interessante è la documentazione delle varie fasi storiche che qui si sovrappongono, tutte rigorosamente documentate in 3D. Oliva Menozzi spiega: «La camera funeraria (TT362) è di epoca ramesside. Il soffitto stellato è da restaurare, ma si riconosce il disegno della barca funeraria, la preparazione della mummia con il dio Anubi e il trasporto del sarcofago. Poi nel Terzo Periodo Intermedio hanno scavato un pozzo e aggiunto una figura maschile, un nubiano che fa il saluto al sole. Il cartiglio del nome però va a coprire la barca ramesside precedente».

C’è bisogno di nuovi spazi, le tombe vengono riaperte per ricavare nuove nicchie. Esemplare è l’altare delle offerte risalente al Terzo Periodo Intermedio (XXII-XXIII dinastia), in cui l’ospite ha riutilizzato quattro «ushabti» (statuette collocate nelle tombe con il compito di rispondere al padrone) di epoca precedente che evidentemente aveva trovato lì, aggiungendoci poi un’anatra mummificata e altre suppellettili rituali.

La scoperta più curiosa viene da un deposito di 50 minuscoli «ushabti» azzurri, in faïence, di epoche diverse, di cui ci sono solo i piedi. Probabilmente ciò che resta di un bottino di tombaroli che erano riusciti a vendere solo le teste. La predazione delle tombe dell’antico Egitto comincia già all’epoca dei faraoni. Gli archeologi, in accordo con le autorità egiziane, sperano presto di aprire la tomba al pubblico illustrando questa lunga storia grazie alla tecnologia 3D, con un viaggio virtuale che sarà molto suggestivo.

Giulia Castelli Gattinara, 25 aprile 2020 | © Riproduzione riservata

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