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Chiara Coronelli
Leggi i suoi articoliIn una Ted Conference Shirin Neshat aveva spiegato che il suo lavoro trae ispirazione dalle donne iraniane, «perché, in qualsiasi situazione, hanno sempre rotto gli argini. Si sono opposte all’autorità. Hanno violato ogni legge in modi più o meno plateali. Sono qui per dire che le donne iraniane hanno trovato una nuova voce, e la loro voce alimenta la mia».
Nata in Iran nel 1957, a diciassette anni si trasferisce negli Stati Uniti, senza poter rientrare in patria, dopo l’insediamento del regime khomeinista, fino al 1990, quando troverà un Paese stravolto, dal quale sceglie di allontanarsi per vivere da esule. «Ogni artista iraniano, prosegue, in un modo o nell’altro, è politico. La politica ha condizionato le nostre vite», portando la battaglia su due fronti, quello contro «la percezione che l’Occidente ha della nostra identità» e quello «contro il nostro regime, il nostro Governo». Anche la sua ricerca, dalla fotografia ai video ai film, si muove su due fronti: Oriente e Occidente, personale e sociale, poesia e politica, bellezza e violenza, femminile e maschile.
«Shirin Neshat: Facing History» è la retrospettiva che lo Smithsonian Hirshhorn Museum dedica alla sua opera, sottolineando l’influenza della storia nella sua arte. Non potevano mancare gli autoritratti di «Women of Allah», serie d’esordio dove posa velata e armata, con volto, mani e piedi coperti da testi di scrittrici contemporanee in calligrafia farsi; così come la trilogia «Turbulent», «Rapture» e «Fervor», videoinstallazioni incentrate sulla distanza tra uomo e donna imposta dalla cultura islamica.
Si prosegue con «Munis», uno dei capitoli di «Women without Men», primo film della Neshat, che racconta il destino di quattro donne; e con i recenti lavori fotografici di «The Book of Kings» e «Our House Is on Fire», dove riprende il ritratto e una calligrafia più insistente, realizzati sulla scia del Movimento Verde e della Primavera Araba (fino al 20 settembre; catalogo Smithsonian).
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