Cecilia Cavalca
Leggi i suoi articoliManca poco meno di un mese alla chiusura della mostra «Giorgio Morandi e Tacita Dean» allestita a Palazzo Te di Mantova e vale la pena approfittare del non molto tempo che resta per visitarla (chiuderà il 4 giugno, Ndr).
A tema c’è un legame. Quello che unisce uno dei maggiori maestri del Novecento italiano, Giorgio Morandi (1890-1964), a una delle più interessanti artiste inglesi contemporanee, Tacita Dean (Canterbury 1965).
Su invito della Fondazione Nicola Trussardi Tacita Dean, che vive e lavora a Berlino, ha girato nel 2009 due film nello studio bolognese di Giorgio Morandi, allora da poco reinstallato: «Still Life» (produzione in bianco e nero, 16 mm, muto), e «Day for Night» (produzione a colori, 16 mm, muto). Non è la prima volta che Tacita si sofferma coi suoi film su grandi protagonisti dell’arte del recente passato: aveva avvicinato nel 2002, a San Gimignano, Mario Merz (1925-2003) e nel 2008, il danzatore e coreografo statunitense Merce Cunningham (1919-2009). L’opera di Morandi ha a sua volta, come noto, ripetutamente catalizzato l’attenzione di registi e fotografi. Tra loro Luigi Ghirri (1943-1992), entrato al pari di Tacita, tra il 1989 e il 1980, nell’abitazione bolognese, traendo dalla piccola stanza di via Fondazza oltre quattrocento fotografie, che a inizio del percorso espositivo mantovano sono utilizzate per restituire in scala reale quell’ambiente.
Il lavoro di Ghirri (è dichiarato in Lezioni di fotografia, 2010), rientrava in un più ampio progetto, «Interno italiano»: «un’indagine su luoghi più o meno celebri, sul modo di vivere l’ambiente». Quando Ghirri realizza i suoi scatti il posto abitato da Morandi per oltre cinquant’anni non era ancora stato toccato da nessuno: «poi sparirà, diventerà un museo, verrà trasferito integralmente, ma per ora è ancora intatto come la casa di Grizzana», precisa il fotografo di Fellegara di Scandiano. Ghirri come la Dean affronta dunque il tema della memoria, si misura come lei con un’immagine distante. Ma Ghirri è chiamato al confronto in un momento diametralmente opposto della vita di quegli oggetti rimasti a riempire lo spazio dopo essere stati ripetutamente fissati sui fogli e sulle tele dell’artista bolognese. Per Ghirri è il momento che precede lo sradicamento dal loro contesto d’origine, per la Dean è quello del recupero di quel fondamentale rapporto di familiarità.
Il lavoro di Tacita Dean si sofferma su questa familiarità, ne cerca il movente. Per farlo esplora la fisicità di oggetti. Insegue a ritroso, con amorevole curiosità, le tracce lasciate nel percorso di mutazione della loro funzione primaria, imposto dall’atto creativo del pittore: «scatole di cipria, fiasche coniche, vasi di fiori di cotone, lampade a gas e lattine d’olio, pentole, vasi, otri e bottiglie, e contenitori la cui funzione non era più riconoscibile». «Erano oggetti del suo tempo», si domanda Tacita, o Morandi «li aveva scovati passando al setaccio i mercatini con uno scopo?»; di certo, continua, «noi li abbiamo sempre riconosciuti con su la polvere e Morandi era il pittore che poteva dipingere la polvere».
La polvere segna il passaggio del tempo, cambia la percezione dei materiali perché ne attutisce la riflettenza al trascorrere della luce e, soprattutto, rende palpabile il distacco causato dall’abbandono della cura di ogni giorno. Registrata attraverso messe in posa degli oggetti di maniacale precisione, la polvere immortalata da Morandi nei suoi quadri è quel qualcosa che svela il legame profondo dell’artista con la realtà, la sua capacità di restituire l’incanto malinconico dell’inesorabile trasfigurazione delle cose a noi più prossime. È un esercizio di attesa, in opposizione al disfacimento.
I film di Tacita Dean, proiettati nel cuore di un’ampia selezione di opere di Giorgio Morandi, invitano lo spettatore a condividere quell’esperienza. Nello svolgimento delle due brevi pellicole (rispettivamente 5 minuti e trenta secondi e 10 minuti) l’ostinata resistenza allo sviluppo dell’azione spinge la richiesta ai limiti della sopportazione. «Still Life», che da questo punto di vista è la lavorazione più ardita, porta il nostro sguardo unicamente sui segni tracciati da Morandi allo scopo di rilevare sul piano di appoggio la giusta posizione dei diversi elementi delle sue composizioni. Questa immobilità della scena centrata su di un singolo oggetto, che è una caratteristica essenziale dei film di Dean, qui ha davvero pochissimo per sostenere l’interesse dello spettatore. Ma proprio l’eliminazione, provocatoria, di ogni possibile gratificazione visiva, trasmette a chi accetta di fermarsi a guardare, la consapevolezza del tempo necessario ad apprendere. Come ha osservato Briony Fer, a proposito di «Pie» (2003, produzione a colori, 16mm, 7 minuti): «At seven minutes, it is not a long film, but, because of the way it holds to the same view with few variations, it also requires us, as viewers, to bill still – to watch, to wait, to observe».
In «Day for Night», quando la cinepresa di Dean si sposta dai punti marcati a matita sul foglio di lavoro di Morandi agli oggetti che abitavano lo spazio in cui lo stesso artista lavorava, e che sono oggi inamovibili, tutto si trasfigura. È esattamente quanto accade nei quadri del pittore bolognese. Il legame di familiarità è ricomposto e nel ricomporsi si svela. Di fronte alla precarietà degli eventi, entrambi gli artisti sembrano essere alla ricerca di una sostanza meno effimera, di una materia più pura e la trovano in quell’universo di cose banali, dimenticate e modificate dal trascorrere del tempo, che recano, malgrado esse, indelebile il segno del valore dell’agire quotidiano. Si tratta di dettagli minimi che l’occhio dell’artista afferra mettendosi in un atteggiamento che somiglia molto alla devozione, intesa come lenta e paziente contemplazione. A noi vengono restituiti sotto forma di rapporti di meravigliosa sottigliezza: tra forme e colori, tra spazio interno ed esterno alla raffigurazione. Non è facile appezzarli: tanto nei film di Tacita, come nei quadri di Morandi. Se ci distraiamo sfuggono.
Si è detto che il lavori di Tacita Dean tracciano una linea molto sottile tra indifferenza e attenzione (Fer). Lo stesso si potrebbe affermare di quelli di Morandi. L’acuta osservazione critica, porta con sé una presa di coscienza che inquieta, in particolare se posta al centro, come prova a fare la mostra mantovana, della galassia sempre più inconsistente delle esposizioni temporanee.
A Palazzo Te il biglietto è unico: per la visita al complesso monumentale e per quella alla mostra che si sviluppa a partire dalla conclusione del tragitto abitualmente suggerito per ammirare i capolavori di Giulio Romano. Non pochi visitatori, per questa ragione, capitano negli ambienti destinati ai lavori di Giorgio Morandi e Tacita Dean quasi per caso. Tra coloro che passano in rassegna la bella sequenza delle opere dell’artista bolognese (accanto alle molte nature morte lavorate ad olio, acqueforti, disegni, acquerelli) non sono rari quelli che di fronte alle due pellicole di Dean omettono di sostare il tempo necessario a visualizzare. Paradossalmente l’omissione conferisce alla sfida lanciata dai film dell’artista britannica (e dalla scelta dei curatori) un interesse speciale, poiché ne rende, per così dire, tangibile, l’urgenza.
Che cosa ci aspettiamo quando accostiamo un’opera d’arte? Quanto del nostro tempo siamo disposti a concedere per capirlo?
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