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Il ladro e la pattumiera di Napoli

Bruno Zanardi

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«La Napoli dove sono nato era ancora una delle più belle città del mondo», dice il mio amico maggiore d’età (e non solo) Carlo Knight, che, dopo aver molto viaggiato e molto visto, a Napoli è tornato a vivere sempre più soffrendone un degrado tanto doloroso quanto probabilmente irreversibile: il degrado del centro storico, seppur rimasto stupendo in molte sue parti perché retaggio d’una delle grandi capitali europee (la Napoli di Vanvitelli, Solimena e Cimarosa, di Ercolano e di Pompei che incantava i viaggiatori del Grand Tour) e il degrado delle periferie, frutto d’una sfrontata intesa criminosa tra speculazione edilizia camorristica, politica corrotta e architetti servili, presuntuosi e ignoranti. Esempio preclaro sono le Vele di Scampìa, nate come ennesima ideologica e demagogica «Cité radieuse» e per ciò stesso, cioè per la stupidità demagogica dell’assunto di partenza, inevitabilmente destinate a subito divenire il luogo d’emarginazione sociale e di degrado umano che sono: ah, poter prendere a schiaffi sul muso quegli architetti, Carlo e io, chiamando a sostegno i nostri amici Raffaele La Capria e Cesare de Seta, senza dire dei molti altri che con gioia arriverebbero di corsa a darci man forte…
«Della meravigliosa e intatta Napoli della mia giovinezza, continua Carlo, oggi è rimasta soltanto la vista dall’alto del golfo con, azzurrini sul fondo, Capri, ancora sostanzialmente intatta e, a sinistra, il Vesuvio, di cui verrebbe quasi voglia di perfidamente evocare una purificatoria eruzione che cancelli per sempre le mille e mille villette abusive costruite alle sue pendici». Parole durissime e dolorose queste di Carlo, che tuttavia continua a rendere onore a Napoli studiandone la storia; con ciò seguendo il magistero laico e liberale di Benedetto Croce che è stato (con Giovanni Gentile) il maggior filosofo italiano del Novecento e con la sua «Napoli nobilissima» ha continuato a rendere merito alle patrie glorie cittadine.
L’ultimo lavoro di ricerca di Carlo Knight è dedicato alla Fontana del leone a Mergellina, monumento da lui studiato avendo sempre ben presente la differenza tra vedere e guardare spiegatagli anni fa da Roberto Pane, il quale aveva a sua volta studiato quella fontana non tanto per la sua bellezza, che c’è, senza però essere sublime, bensì per il suo essere tutt’uno con Mergellina. Insegnandoci in tal modo quel che in Italia è verità assoluta, cioè che per rispettare e conservare un monumento bisogna prima di tutto rispettarne e conservarne il contesto ambientale. Principio che da decenni tutti speriamo faccia proprio un Presidente della Repubblica, un Presidente del Consiglio, un Ministro, un Presidente di Regione o un Sindaco, ma finora nada de nada. Infatti, per tutti loro l’edilizia resta il volano dell’economia, e giù a stuprare irreparabilmente e irresponsabilmente paesaggi, coste marine e città costruendo ovunque crescent, nuvole, verde verticale, torri, condomini, case, casette, porti, capannoni. Ciò per far lavorare il popolo, senza mai pensare che (keynesiamente) un lavoro è anche abbattere con la dinamite infami scagazzate di crescent, nuvole, condomini, eccetera, con cui si è capillarmente deturpato (e ancora si continua a deturpare) il Paese, per poi riedificare solo quel che ha senso ricostruire. Questa volta, però, secondo forme, proporzioni, tipologie e uso di materiali compatibili con l’esistente storico. Che poi è (o almeno speriamo sia) «il rammendo delle periferie» di Renzo Piano.
Ciò detto, il mio amico Carlo sulla Fontana del leone oggi sa tutto e perciò mi ha raccontato una storia bellissima che nessuno conosceva perché solo lui quella fontana ha avuto la curiosità di guardarla, mentre tutti gli altri si limitavano a vederla. E per guardarla è andato in archivio a studiare le carte, scoprendo che secondo i documenti fu Ferdinando IV di Borbone a farla porre in opera verso il 1785, allorché rifece il suo casino di Mergellina, quindi la fontana non può essere opera ottocentesca come tutti finora hanno detto (Soprintendenza in primis). E qui tre le cose. Una, Ferdinando fece ricostruire il suo casino perché Mergellina in quegli anni era ancora il luogo incantato descritto a cavallo del XV secolo da Jacopo Sannazaro nelle sue Piscatoria Eglogae ambientate in un magico scenario bucolico marino. Due, il re fece porre in opera la Fontana del leone con una finalità sociale, cioè rendere di pubblico uso l’acqua che a Mergellina sgorgava, la più leggera, salutifera e medicinale dell’intera città. Tre, il leone (che è nei fatti la fontana) non ha documenti d’allogazione, quindi con ogni probabilità si tratta d’una scultura di recupero, forse proveniente da qualche monumento calabrese o siciliano distrutto dal tremendo terremoto del 1783.
Dopodiché? Dopodiché la statua del leone reca in una zona poco evidente del basamento la scritta «G. Pirolli 1860». Da qui tutti (Soprintendenza in primis) sempre a dirla opera di Giuseppe Pirolli. Ma inutile è cercare traccia di quel Pirolli in repertori, indici o elenchi di artisti dell’Ottocento, perché Pirolli non era uno scultore, bensì un «abbozzatore», cioè un artigiano che eseguiva solo la fase iniziale delle lavorazioni, sgrossando i blocchi di marmo. A dircelo è Onofrio Buccini (lui sì uno scultore) nella sua autobiografia, un inedito manoscritto conservato nel Museo Campano di Capua. Quello che Carlo è andato a studiare, trovandovi scritto, non solo che Pirolli era un semplice abbozzatore, ma anche che «sotto il manto di agnello, era lupo rapace, ruffiano e ippocrita. Il ladro Pirolli» che per anni aveva truffato il conte di Siracusa (fratello di Ferdinando II e scultore dilettante) facendogli pagare il doppio i blocchi di marmo che gli forniva, fino ad appostarsi nelle siepi, quando il conte dava qualche festa in giardino, per «involare e nascondere dietro le statue bottiglie, bicchieri e vivande».
Buccini era però persona generosa (o ingenua?), così che quando nel 1861 ricevette l’incarico d’eseguire il gruppo marmoreo della Fontana della sirena Partenope a una cinquantina di metri dalla Fontana del leone, in piazza Sannazaro, «credé avvalersi della cooperazione del descritto abbozzatore Giuseppe Pirolli», il quale, alla fine dei lavori, «sfrontatamente, senza rossore, pari a quella prostituta che si farebbe soddisfare la libidine in istrada, espose pretendere che si fosse inciso alla base del lavoro ‘Buccini e Pirolli fecero’». A quel punto Buccini chiamò a difesa del proprio lavoro una commissione di artisti e consegnando una matita a Pirolli disse: «Signori della Commissione, per farvi conoscere chi è costui lo sfido non a disegnare una testa, ma bensì il primo elemento dell’arte, il mezz’occhio». In altre parole, Buccini sfidò Pirolli a una speciale ordàlia. Dimostrare pubblicamente di saper disegnare. Ma quando questi restituì il foglio su cui aveva tracciato il proprio disegno «ecco tutti a deriderlo». Dunque «il ladro Pirolli» non sapeva disegnare, quindi non poteva essere uno scultore, essendo il disegno principio di ogni arte. Senza dire del mio personale sogno (credo però condiviso da molti) di poter sottoporre a uguale ordàlia tutti gli artisti moderni, in primis gli architetti, proponendo l’impedimento dell’esercizio della professione a chi di loro non dimostri di saper disegnare perfettamente, fu così che l’abbozzatore, non potendo falsamente firmare la Fontana della sirena (dove solo gli si concesse d’incidere «Pirolli abbozzò»), firmò falsamente quella del leone. Che da allora, e per un secolo e mezzo, tutti hanno creduto opera sua (a cominciare dalla Soprintendenza). Evidentemente il nostro pensava di poter acquisire con quel falso gloria e fama imperiture presso i viaggiatori che da tutta Europa venivano ad ammirare il meraviglioso giardino sul mare che era Mergellina, la piccola Montmartre napoletana dove abitavano e lavoravano i pittori della Scuola di Posillipo. Mai più aspettandosi, sempre «il ladro Pirolli», non tanto e non solo di venire smascherato dagli studi di Carlo Knight, ma la totale indifferenza con la quale la gente passa oggi davanti alla Fontana del leone, che giace imbrattata da osceni scarabocchi fatti col pennarello e da macchie di vernice in una Mergellina diventata, nelle amare parole di Domenico Rea, altro napoletano, e altro amico di Carlo, «la pattumiera antropologico-folclorica di Napoli». E il Sindaco? E la Soprintendenza?

Bruno Zanardi, 02 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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