Bruno Zanardi
Leggi i suoi articoliÈ un dicastero nato per amputazione e autoreferenziale, il cui fallimento non è spiegabile con il tormentone dei tagli e dell’insufficienza dei finanziamenti
Luigi Covatta (Forio d’Ischia, 1943) è un politico e giornalista italiano, che dal 1979 al 1994 è stato parlamentare per il partito socialista. Nei governi Andreotti VI e Andreotti VII ha ricoperto la carica di sottosegretario ai Beni culturali. Ha svolto anche attività giornalistica collaborando, tra gli altri, a «la Repubblica», «Il Mattino», e «Avanti!». Collabora con il «Corriere della Sera», «Il Riformista» e «Le Ragioni del socialismo», e dal 2009 è direttore politico di «Mondoperaio».
Una trentina d’anni fa, quando lei era sottosegretario al Ministero dei Beni culturali, si aspettava che le cose sarebbero andate a finire così? Con Franceschini lasciato ad affrontare, come sta facendo con determinazione, ma con le unghie spuntate da sindacati, Corte dei Conti, burocrazia e soprintendenti e professori universitari, la sfida di rimettere in piedi un ministero in via di liquefazione?
Direi di sì, perché già allora mi resi conto delle infinite aporie di quel ministero, e non perché era considerato un ministero di serie C. E infatti in nulla è riuscito a modificarlo chi mi ha seguito. Non due segretari di partito come Veltroni e Rutelli, né intellettuali quali Ronchey, Fisichella o Giuliano Urbani.
Un fallimento spesso spiegato con il tormentone dei tagli e dell’insufficienza dei finanziamenti.
Una giustificazione che però non regge, come abbiamo dimostrato in un volume pubblicato dalla Fondazione Astrid. Infatti, se a fianco dei tagli si fa l’elenco dei residui passivi accumulati nel corso degli anni, si vede che questi sono circa la metà dei fondi a disposizione.
Il peccato originale sta nell’aver Spadolini fondato nel 1975 quel ministero solo per favorire la propria carriera?
Certamente c’è anche questo. Ma l’equivoco viene più da lontano. Da quando, nel 1966, la commissione parlamentare Franceschini (Francesco, non l’attuale ministro Dario) introdusse nel comune parlare la nozione di «bene culturale». Una nozione tipica del linguaggio economico che definisce la parte, diciamo così, meno dinamica di un tessuto produttivo, come «i beni al sole» lasciati incolti dei latifondisti. Cosa di cui sarebbe forse il caso prendessero atto tutti quelli che arricciano il naso quando si parla del «petrolio», perché fra «bene» e «petrolio» siamo lì. Senza poi dire che perché un bene sia «culturale» bisogna che qualcuno lo riconosca tale, come scrisse Umberto Eco trent’anni fa in un saggio troppo presto archiviato; aggiungendo che questo qualcuno lo legge oggi con le sue categorie, diverse da quelle di qualche secolo fa. Mentre sempre in quegli anni Giovanni Urbani profetizzò che unificando la magica paroletta bene nella chiave di «culturale», quindi «demo-etno-pluto» eccetera, si sarebbe fatto del patrimonio artistico una demagogica marmellata informe di cose le più disparate, rendendolo perciò stesso inconservabile.
Quel che è puntualmente accaduto. Infatti, qualsiasi lavoro scientifico che voglia avere un destino deve per prima cosa definire con ogni possibile precisione l’ambito dell’universo che vuole esplorare. Altrimenti si fa della metafisica.
La metafisica alla base del dibattito tanto ideologico quanto demagogico che occupa oggi i quotidiani. Dove proprio questa indeterminazione di cui diceva Urbani ha generato l’equivoco politico-istituzionale alla base di tutto: il conferimento del «portafoglio» a un ministero giustamente nato «senza portafoglio», cioè come organo tecnico-scientifico d’indirizzo e coordinamento. Fino a quando Spadolini per motivi di rango pretese il portafoglio, che gli fu concesso con un decreto legge tanto urgente da portare la data 23 dicembre 1974, antivigilia di Natale (poi convertito in legge nel ’75).
Da qui un ministero nato per amputazione di altre amministrazioni e per giustapposizione dei loro tronconi.
Infatti. Si amputa il Ministero della Pubblica Istruzione della competenza sulle antichità e belle arti, la Presidenza del Consiglio di quella sulle biblioteche, il Ministero dell’Interno di quella sugli archivi; mentre, anche se il ministero si chiama «Ministero per i Beni culturali e ambientali», non si amputa il Ministero dell’Ambiente per il semplice motivo che non esisteva ancora, per cui non c’era una struttura amministrativa da trapiantare. Per di più il Ministero nasce mettendo insieme amministrazioni che bene o male erano collegate a realtà vitali, e senza dargli una missione diversa da quella precedente.
Così Spadolini realizzò quel ministero profeticamente definito da Sabino Cassese «una scatola vuota: il provvedimento (della sua costituzione) non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico ministero».
Parole tanto tombali quanto sante. Il che ha determinato un altro fenomeno curioso: nel senso che, contrariamente a quanto dicono le leggi dell’evoluzione, per le quali è la funzione che crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione. Funzione che da allora è sempre e solo quella di tenere separato l’universo dei beni culturali dal resto del mondo, creando una struttura autoreferenziale che evita qualsiasi comunicazione e contaminazione con l’esterno.
Quali erano le realtà esterne?
L’Università e i centri di ricerca dell’industria, cioè la parte culturalmente più vitale della società. Poi la scuola, i privati proprietari, il Fai, la Chiesa (che, come ben si sa, detiene una parte enorme del patrimonio storico, artistico e monumentale del Paese), i professionisti del turismo e così via. Infine i comuni cittadini, la cui sempre più dilatata domanda di consumi culturali ancora oggi non riesce a avere risposta.
Ma perché continua a mancare un qualsiasi disegno di politica dei beni culturali?
Perché, invece di creare una politica, si è creata un’amministrazione, la quale fra l’altro si giustappone ad altre amministrazioni, ciascuna con le sue competenze e con le sue risorse.
Non c’è anche un problema culturale dietro questi fallimenti?
Il problema è certamente culturale, ma prima ancora politico. Quello d’un Ministero che non ha mai definito il rapporto tra tutela e società, permettendosi quindi il lusso di andare avanti, in un moderno Stato decentrato e democratico e in una società affluente, a far tutela sulla base di una legge pensata nel 1939 per uno Stato centralistico e autoritario e per una società povera e in gran parte agricola. Mentre la grande questione che si sarebbe dovuta porre a cavallo dei due secoli era come collocare le leggi di tutela nel nuovo contesto sociale, economico e urbanistico nel frattempo assunto dal Paese.
E il nuovo Codice del 2004?
Il nuovo Codice è un malriuscito tentativo d’aggiornamento della legge Bottai del 1939.
Perché?
Perché il Codice non è partito dalla realtà nel frattempo montata (l’alterazione gravissima del rapporto tra patrimonio artistico e ambiente, l’avvento dell’informatica, la cultura di massa e quant’altro) per poi costruire la legge e regolarne le dinamiche. È invece rimasto fermo sul dogma storicistico delle leggi del 1939 per imporlo alla realtà: dogma che porta a una musealizzazione del territorio, quindi a una sua intangibilità, perciò a un suo impoverimento. Ma le leggi non possono mettere le brache alla storia. Pensi all’assurda polemica di questi giorni sull’uso del Colosseo, dove Franceschini, Carandini e Manacorda hanno ragione al 200% contro chi vuol tenerlo intatto nel suo attuale stato d’inutile dente cariato. Una polemica, questa, anch’essa frutto del non esserci mai stata una sede di progettazione inter-istituzionale che governasse lo sviluppo del territorio senza pretendere di tagliare tutto con l’accetta del vincolo, quindi continuando nei fatti a operare secondo la ratio della legge del 1939.
Ma l’Università continua a insegnare ai futuri soprintendenti che la tutela coincide con il restauro come definito settant’anni fa nella teoria estetica di Brandi, testo del tutto inservibile quando si tratti d’intervenire nel rapporto tra patrimonio artistico e ambiente. Un ritardo i cui effetti sono gli irreversibili danni provocati dai restauri estetici sempre e solo delle solite opere d’arte, in genere capolavori, e ancor più i disastri ambientali e culturali provocati dalla speculazione edilizia. È di questi giorni la catastrofe di San Vito di Cadore e il demente ampliamento dell’albergo Santa Chiara a Venezia, realizzato con il permesso della soprintendente Codello.
Forse dimentica che il primo centrosinistra, quello Moro-Nenni, cadde sulla legge urbanistica. Né da allora è sorto un coordinamento tra i poteri che gestiscono la politica del territorio. Io non sono più in Parlamento dal 1994, ma ricordo che alla fine del ’93 il gruppo dei Verdi presentò un emendamento alla legge finanziaria che prevedeva l’istituzione di un unico Ministero del Territorio accorpando le competenze del Ministero dei Beni culturali, dei Lavori pubblici, dei Trasporti, dell’Ambiente, della Marina mercantile (allora c’era ancora) e dell’Agricoltura. Un testo che mi impegnai a trasformare in un disegno di legge. Ma qualche mese dopo fu sciolto il Parlamento, fu sciolta la Repubblica, fu sciolto tutto, e il «nuovo che avanzava» di queste cose non s’è mai più occupato.
Quest’anno ricorre il 40mo anniversario del Ministero senza che sostanzialmente nulla sia cambiato dal 1975, se non un’accelerazione burocratico-clientelare. Anche la riforma Franceschini, in fondo, è solo organizzativa.
Sono vent’anni che il Ministero è sottoposto a riforme di questo genere. Per carità, qui ci sono idee anche buone. Ma con chi le applichi poi? Faccio il caso dell’autonomia dei musei. Qualche anno fa la Scuola Normale di Pisa fece un seminario sul tema a cui ero presente. L’impressione fu che quei sistemi, laddove erano stati realizzati, si configuravano come altrettante Asl, dove contava di più il comitato di gestione che il coordinamento culturale.
Un Paese immodificabile?
No, lo si può modificare, ma bisogna avere delle idee per modificarlo. Quelle che non si vedono da nessuna parte. Non certamente nelle chiacchiere sulla Costituzione e i suoi diritti esigibili su cui si esercitano oggi in tanti. Pensi a Stefano Rodotà e al disastro dell’«acqua pubblica» gestita dalle municipalizzate.
Si potrebbe dar corso al progetto di Giovanni Urbani per la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. Un progetto degli anni Settanta, ma attuabile già domattina perché definito in dettaglio. Non però attuabile dai soprintendenti che, figli della 1089 del 1939 e del restauro estetico, sono del tutto impreparati ad affrontare un tema così concreto e politecnico.
Infatti non è un caso che chi aveva formulato questo progetto, appunto Urbani, aveva anche identificato nell’istituzione del Ministero dei Beni culturali la principale causa di tutti i nostri mali.
Quindi pensa a un’abolizione del Ministero dei Beni culturali?
Penso che nel disegno di legge sulla riforma della struttura di governo fatto da Franco Bassanini, ministro della Funzione pubblica, c’era una cosa più giusta delle altre. Togliere il portafoglio al ministro dei Beni culturali. Ma disgraziatamente il vicepresidente di quel Governo (Walter Veltroni, Ndr) era anche il ministro dei Beni culturali, quindi figuriamoci.
Altri articoli dell'autore
L’Italia possiede le linee guida per la prevenzione dei disastri ambientali da quasi 50 anni, ma non le ha mai applicate
Politica, ideologia, burocrazia e miopia hanno cinicamente liquidato la possibilità di preservarci: le non scelte sono i responsabili effettivi dei morti e dei disastri che affliggono l’Italia. Eppure sapevamo. I piani non sono certo mancati
Anche nel turismo l’innovazione senza efficienza fa solo danni