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Cavallini napoletani

Bruno Zanardi

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È uscito per i tipi di arte’m di Napoli un importante libro di Pierluigi Leone de Castris su Pietro Cavallini, il grande pittore romano attivo a cavallo di Due e Trecento tra Roma e Napoli, ma forse anche ad Assisi, quindi uno dei fabbri, con Giotto e, prima ancora, Cimabue, del formarsi della nuova lingua della civiltà figurativa dell’Occidente. Quella che supera la fissa iconicità bizantina in favore del naturalismo, aprendo in tal modo la strada a tutta la pittura posteriore. Passaggio di civiltà certo dovuto alla rivoluzione di pensiero portata sulla scena religiosa e civile da san Francesco e dalla diffusione celerissima per l’intera Europa del francescanesimo.
Un libro importante, questo di De Castris, e anche bello. Un bel libro antico, perché nei fatti molto vicino alle monografie come si scrivevano nella prima metà del Novecento; e se è vero, come credo, che si è moderni solo se si rifiuta la modernità, essendo questo il solo modo per non ripetere il processo che ci ha portati qui, il libro di De Castris è davvero modernissimo. Un libro moderno e antico anche nella fedeltà dello studioso pugliese al suo maestro, Ferdinando Bologna, grande storico dell’arte e uomo di saldo impegno civile, dove la fedeltà ai maestri è moneta sempre più rara nel nostro tempo di individualismo di massa e d’immensa crisi degli studi storico-artistici (e non solo).
Resi i giusti e generali omaggi, aggiungiamo che il libro nasce da un’idea intelligente e poco praticata, vale a dire riconoscere che, con l’instaurarsi della dinastia degli Angiò nel 1266, ancor più con la dipartita da Roma per Avignone della Corte Pontificia nel 1305, Napoli diventa per circa un secolo una delle capitali d’Europa, attirando a sé vaste ricchezze e grandi artisti; circa questi ultimi, senz’altro Pietro Cavallini, il primo (tra quelli collegabili alla rivoluzione figurativa appena detta) ad arrivare a Napoli nel 1308, ma anche Simone Martini, che intorno al 1317 dipinge la grande pala di Ludovico d’Angiò, santo francescano e figlio del re di Napoli Carlo II, infine, dal 1328, Giotto; né la passione di De Castris per il Medioevo deve far dimenticare i Borbone, dinastia che aveva reso il Regno delle due Sicilie uno dei grandi regni europei, ma siccome la storia la fanno i vincitori, via con la leggenda di Franceschiello reazionario e mezzo scemo, senza invece dire che il Risorgimento ha distrutto uno Stato fiorentissimo, prima, con il non aver dato retta a Cavour e Cattaneo di fare dell’Italia uno Stato federale calcato sugli Stati preunitari, poi con le sanguinose repressioni militari che hanno impoverito quelle terre, favorendo l’incistarsi di mafia, camorra e ’ndrangheta, le stesse che oggi rischiano di soffocare per sempre il Paese.Veniamo adesso a Cavallini, per dire che il libro raccoglie gli studi di una vita dello studioso pugliese, come in bibliografia egli non manca di sottolineare citando i molti suoi titoli, perciò nel libro sono riprese le attribuzioni e le cronologie delle opere del maestro romano da lui avanzate negli anni. Attribuzioni e cronologie del tutto condivisibili che cercano (all’antica) l’autografia, la mano, del maestro e che partono dagli affreschi della cappella di Sant’Aspreno, nel Duomo di Napoli, per andare alla cappella Brancaccio a San Domenico Maggiore.

Mentre per le molte altre opere date a Cavallini da altri storici dell’arte, De Castris tutte le discute con molta passione e precisione, in particolare gli affreschi danneggiatissimi di Santa Maria Donnaregina, giustamente però opponendo a quelle attribuzioni un problema cronologico, la presenza documentata a Napoli dell’artista romano solo dal 1308 al 1309, quindi un tempo troppo breve, anche protraendone i termini di qualche altro anno, per coprire il periodo necessario a eseguire i molti cicli di affreschi cavalliniani della città. Ad esempio, mi pare condivisibile che di Lello da Orvieto sia «l’Albero della Vita» nella Cappella degli Illustrissimi in Duomo, pur essendo molto evidente il tono pienamente cavalliniano dell’affresco, infatti attribuito al maestro romano da un grande studioso come Miklós Boskovits. E interessante è il ruolo che De Castris vorrebbe dare a Lello di punto di raccordo tra Cavallini e Giotto, infatti molto giottesca è la tavola con il ritratto del vescovo d’Ormont, morto nel 1320, originariamente sita nella stessa Cappella degli Illustrissimi, in Duomo.
E qui entriamo nella parte forse più classica di questa monografia su Cavallini. Il rapporto del maestro romano con Giotto e con Assisi. Dove la tesi è che Cavallini riprenda da Giotto, il quale ultimo sarebbe, ad Assisi, sia il Maestro di Isacco, sia l’autore delle Storie francescane, a Roma l’autore dei Santi Apostoli clipeati di Santa Maria Maggiore. Tesi classica, cioè accreditata in Italia da circa un secolo, che De Castris sposa senza mai discutere i termini tecnici della questione (giornate, modi di esecuzione  degli incarnati, uso dei patroni eccetera) e nemmeno quelli storici: come possono essere di Giotto, nel 1292, i così moderni affreschi del Ciclo francescano di Assisi e, contemporaneamente, essere di Giotto i così evidentemente torritiani e arcaici affreschi nel transetto di Santa Maria Maggiore, la cui esecuzione fu interrotta certamente del 1297, l’anno della scomunica data da Bonifacio VIII ai Colonna, committenti dell’opera? E come può essere del solo Giotto un ciclo di affreschi, sempre il Ciclo francescano, eseguito su due diverse pareti in cui, a destra, si contano 188 giornate d’esecuzione, 70 figure e 134 teste e, a sinistra, 323 giornate, 154 figure e 378 teste. Non sarà che questa enorme differenza di numeri attesti che nelle due pareti è cambiato il disegno di progetto? Né qui parlo delle differenze e delle uguaglianze nel modo di esecuzione degli incarnati, tipicamente romano nel Ciclo francescano e sempre molto differente da quello delle opere certe di Giotto. Ma tant’è. E forse di queste cose De Castris discuterà in una sua prossima monografia, magari su Giotto.

Bruno Zanardi, 03 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

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