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Olga Scotto di Vettimo
Leggi i suoi articoliNapoli. Nella sottile e invisibile linea di confine che separa l’arte dalla vita, la recente produzione di Lino Fiorito, esposta fino al 22 febbraio all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in occasione di «Buchi Neri», mostra personale a cura di Francesco Iannello e Maria Savarese, sviluppa un pensiero artistico in cui l’attualità politica e la crisi degli equilibri sociali, religiosi e culturali diventano la sorgente viva di riflessione.
La distruzione sistematica e simbolica di una patrimonio d’arte e dei suoi difensori da parte del fondamentalismo terroristico (le statue dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan, il museo di Mosul, il sito archeologico di Palmira, il tempio di Baal Shamin e l’uccisione dell’archeologo Khaled al-Asaad) sono percepiti dall’uomo occidentale come azioni che minano le fondamenta culturali, le radici storiche dell’umanità nonché la sua stessa possibilità di continuità nel futuro.
La risposta dell’arte diventa nei lavori di Fiorito una voce non mediata, istintiva, che necessita da subito di una sistemazione razionale che la giustifichi, perché possa nuovamente dirsi coerente con le proprie radici culturali che affondano nella ragione. L’artista, indubbiamente, ha in prima istanza agito d’impulso su una serie di manifesti stampati con motivi islamici, geometrici e decorativi, acquistati senza apparente motivo in una libreria di Colonia, trasformandoli in superfici su cui spruzzare al centro lo smalto spray nero: «Ora su ciascun foglio era una sorta di buco nero, che ben descriveva il sentimento, la confusione e lo sbigottimento dentro di me. Ma quelle macchie nere hanno aperto un varco», racconta l’artista.
Il sentimento è da subito ambivalente e mina la certezza dell’intelletto occidentale. La crisi dell’arte produce una crisi di senso che coincide con l’etica e il sentimento di giustizia. Di qui la necessità di verificare attraverso la scienza la propria posizione nel mondo e, quindi, quella dell’arte. Fiorito, pertanto, assume dalla fisica la teoria secondo la quale il buco nero non è metafora della contrazione, ma dell’espansione e della «resurrezione» dell’Universo. Si assiste, dunque, a una drammatizzazione dell’arte che, libera da sensi di colpa o dalla codardia della rimozione, oppone al terrorismo una poetica ferma. «Come non pensare, ricorda in catalogo Maurizio Zanardi, che nella scelta del luogo sia all’opera l’atto di un teatro (il nostro artista e un uomo di teatro) che cerca di non fissarsi nella ritorsione, in direzione di un altro gesto e affetto?». Fiorito è artista che con disinvoltura si muove tra le arti visive, il cinema e il teatro: è pittore oltre che scenografo. E da artista Fiorito agisce senza distruggere, trasfigura e non polverizza, assume l’Islam e non lo cancella. Se i buchi neri sono varchi per esprimere altro, le stesse ceramiche in mostra, che accompagnano la produzione pittorica, si presentano come contenitori inadatti a contenere, forme senza fondo, in ultima istanza, rese volumetriche di concetti, costruzioni di Universi altri e più adatti, se non, semplicemente, possibili.

Lino Fiorito, B.H. 1, 2015
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