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Lidia Panzeri
Leggi i suoi articoliDefinire acqua alta o, per dirla alla veneziana, «aqua granda» quella che sommerse la città il 4 novembre del 1966, raggiungendo l’altezza record di 194 cm sul livello del mare, è certo improprio. Di fatto si trattò di un’alluvione che coinvolse l’intero Nord-Est con l’esondazione di tutti i 19 fiumi, compresi Piave e Tagliamento, e che provocò una novantina di morti nel Bellunese. Una tale quantità d’acqua non poteva essere smaltita in breve tempo, complice anche un forte vento a 100 km all’ora, che sospingeva le onde all’interno della laguna. Così accadde l’incredibile: le onde del mare superarono e, in alcuni punti, spazzarono vie le ultime difese progettate a fine Settecento dalla Serenissima lungo il litorale che dal Lido va fino a Chioggia: i «murazzi», solide barriere costituite da grossi massi di pietra d’Istria. Gli effetti dell’«aqua granda» furono devastanti: spazzate via le merci nei negozi, invasi i pianterreni dove ancora abitavano più di 10mila persone, deturpati dalla nafta, fuoriuscita dai serbatoi, abitazioni private e monumenti. In particolare in Piazza San Marco, epicentro del disastro, le colonne della Basilica rimasero segnate e la cripta fu inagibile per molti anni. Fu da allora che iniziò il grande esodo verso la terraferma, con il numero degli abitanti crollato dai 176mila del 1951 agli attuali 55mila e il conseguente impoverimento del tessuto sociale e delle attività produttive, turismo a parte. Un fatto che pare irreversibile.
Se questo è l’antefatto ci si chiede quanto sia stato realizzato in questo mezzo secolo per prevenire di nuovo un’acqua così disastrosa. Un fenomeno peraltro costante nella storia di Venezia, che solo in questo nuovo secolo ha registrato ben 8 episodi al di sopra della soglia critica dei 140 cm (con il record di 156 cm il 21 dicembre 2008).
Un primo dato eclatante è che non è ancora operativo il sistema di dighe mobili Mose: la conclusione dei lavori, iniziati tra molte polemiche nel 2003, è rimandata al 2018 e già sono emerse criticità nel funzionamento delle paratoie posate. Nel frattempo i costi sono lievitati dai previsti 3,4 miliardi ai 5,5 attuali. In più a pesare come un macigno è il sistema di corruttela che ne è derivato, con l’azzeramento nel 2013 dell’intera classe politica veneziana e veneta.
Sul piano dei finanziamenti pubblici un primo risultato si raggiunse con la Legge Speciale 171 del 1973 per il disinquinamento, la manutenzione della città (compreso il cruciale scavo dei rii) e il restauro di monumenti pubblici, ma anche di abitazioni private. Progressivamente i finanziamenti si sono esauriti fino ad azzerarsi di fatto nonostante i pressanti appelli dei vari sindaci che si sono avvicendati in questi ultimi anni.
Al restauro dei monumenti hanno contribuito in maniera rilevante i Comitati Privati dell’Unesco, grazie soprattutto all’appello lanciato, all’indomani dell’alluvione, da Sir Ashley Clarke e dalla moglie Lady Frances Clarke che, per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale e raccogliere fondi, si stabilirono in città. Nel 2015 i Comitati privati sono divenuti 23, di 11 Paesi diversi. Nel corso dei cinquant’anni sono stati investiti 10 milioni di euro per un totale di 717 interventi.
Il 21 ottobre si è inaugurata una mostra, a cura del Venice in Peril Fund alla Madonna dell’Orto, oggetto di uno dei primi interventi. Fino al 4 novembre un video proiettato alla Biblioteca Marciana propone una sintesi delle azioni di conservazione che hanno prodotto durevoli frutti. Il 4 novembre il Teatro La Fenice apre la stagione con l’opera «Aquagranda» (musiche di Filippo Perocco, libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola e direzione di Marco Angius).
In questi cinquant’anni ci si è attrezzati per ammortizzare i danni delle acque alte fino a un’altezza massima di 140 cm. Si sono alzate alcune fondamenta, si è creato un sistema di passerelle per consentire la viabilità e in numerosi edifici, come le Gallerie dell’Accademia o Palazzo Grimani, si sono costruite vasche di contenimento e smaltimento delle acque. Ma il vero punto debole rimane Piazza San Marco, con il nartece della Basilica che si trova sott’acqua già a partire dai 78 cm di piena. Eppure sotto la piazza esiste un sistema di cunicoli e canali progettato per smaltire le acque in eccesso, deteriorato negli anni fino a perdere gran parte della sua efficacia. Ai tempi dei pingui finanziamenti della Legge Speciale, ora estinti o dirottati, si intendeva reintegrarlo, rimuovendo il pavimento della piazza, con i conseguenti, sostanziosi costi. Così oggi Piazza San Marco continua ad allagarsi per la gioia dei turisti che si fanno il selfie. Del resto vedere i suoi monumenti riflessi in uno specchio d’acqua, ammettiamolo, è uno spettacolo che ha pochi eguali nel mondo.

Venezia, 5 novembre 1966. Foto di Daniele Resini

I «murazzi» al Lido di Venezia, travolti dalle onde. Foto di Daniele Resini

Novembre 1966, Piazza San Marco sott'acqua. Foto di Gianfranco Tagliapietra
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