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Francesca Piccolboni
Leggi i suoi articoliIn quale contesto nasce l’interesse di Alighiero Boetti per le copertine, e come si inserisce questo lavoro nel suo percorso artistico?
Se durante l’Arte Povera, Boetti non usa marmo e ceramica ma quello che ha sotto mano recuperando cemento, legno, corde…,dopo la sua “esasperazione” con l’Arte Povera, non le userà più ma si concentrerà in materiali non più grezzi ma “di lavoro” come delle matite («Cimento dell’armonia e dell’invenzione»), delle penne Bic per le «Biro», l’editoria con il «Manifesto», fotomontaggi («Gemelli», «Shaman showman») e giornali con “formazioni di forme” che diventeranno poi le «Dodici Forme», poi «Territori Occupati», poi «Planisfero» per confluire in «Mappa». Non userà acquarelli e tempere ma ciò che trova nella cultura Pop nel vero senso popolare. Oggetti popolari, strumenti che tutti usano; democratici e poco cari. Negli anni ’60 e inizio ’70, le riviste erano costose e anche “politiche” e culturali – dati ancora lontani dalla cultura Pop. Leggevano “Data” come testi con visioni nuove e rivoluzionarie. Boetti ha sempre amato i libri. Da piccola mi diceva divertito: “se guardi nella biblioteca di casa, puoi distinguere velocissimamente di chi sono i libri: con tanto testo, di Annemarie, con solo immagini i miei!” Libri su tutto, su gli amati etruschi, sui Maia, su Paul Klee, sulle foglie degli alberi…basta che avessero tante immagini. Per sfogliarli, per fotocopiarli, per ricalcarli e a volte per ritagliarli. Perché ritagliare un’immagine la estrae dal suo contesto, ne fa anche una silhouette, diventa una forma, come le Dodici Forme di questi dodici paesi in guerra in copertina della Stampa che trattati cosi da Boetti diventano forme anonime, intriganti persino belle! Queste forme perdono la loro identità. Dal «Pack,» alla «Perdita d’Identità» al «Tutto», aveva bisogno di nuove forme; e perché non usare quelle già esistenti? Come diceva spesso: “Io non invento nulla, come per la «Mappa». Faccio quello che tutti potrebbero fare ma alla fine nessuno fa!”. Le riviste erano acquistate per cercare forme all’interno. Sfogliare per andare a caccia di una silhouette che potesse essere riconosciuta anche se non si vede più l’immagine. Gli interni furono prima ritagliati per prenderne le forme, e più tardi anche fotocopiati alla fine degli anni ’80 per crearne dei libri con il 111. Ma non si potevano sprecare le copertine. Come diceva sempre Boetti: “Non si butta mai nulla!”.
Scorrendo le copertine raccolte in questi due libri si ha uno spaccato affascinante del panorama socio-culturale degli anni ’80. Come interpreta la motivazione di Boetti nel raccogliere questo tipo di immagine? Si può parlare, secondo lei, di una sorta di archivio visivo?
Dovremmo rimettere tutto nel contesto. Adesso abbiamo tracce del passato: con internet si ritrova quasi tutto – al meno così crediamo. All’epoca, le informazioni “shock” che meritavano di essere in copertina finivano poi in spazzatura! Queste opere con le copertine, che sono quindi opere che si datano da sole (come anche le «Mappe») erano come lo scatto di un momento. Se si studia l’insieme delle copertine di un lavoro come 1984, si possono ricomporre tutti gli eventi mondiali importanti di quell’anno. Non era certo la sua intenzione archiviare come lo intendiamo noi, e soprattutto non come lo faccio io in Archivio! Catturava un istante: “ecco il mondo com’è nel 1984”. E questo in tutti i campi, dalla politica alla cultura, la società, la moda, le scienze, le scoperte… Ci dà una visione estremamente completa.
Nel lavoro «1984», le copertine sono attraversate da una pennellata rossa. Che significato ha questo segno ricorrente?
I numerosi colori delle copertine sono tolti volutamente da Boetti, ciò che in ogni caso sarebbe avvenuto con il tempo: le immagini si sarebbero sbiadite. Si tratta forse di un gioco con il tempo? Nel libricino 1984, questa linea rossa ha per me diverse interpretazioni. In Archivio, abbiamo spesso pensato ad una certa influenza del Giappone. Ma sicuramente la risposta è altrove. Nelle «Biro», la sua frase preferita è sempre stata (a parte “Mettere al mondo il mondo”) “Seguire il filo del discorso”. Quest’idea del filo, di un «fil rouge», prende pienamente senso nell’opera di Boetti. Se si studia l’insieme della sua opera, si intravede benissimo il filo conduttore che attraversa diversi periodi, diverse tipologie. C’è ancora gente che non capisce come Boetti ha potuto andare in direzioni cosi diversi, esplorando tipologia estremamente varie. Dalla carta, ai ricami alle sculture…ma c’è sempre un legame tra tutte loro.
Nel volume 1986 compaiono i titoli delle poesie di Sandro Penna, trascritti a mano sinistra. Che valore ha questo gesto?
Boetti amava la poesia alla follia. Avrebbe voluto essere ricordato come poeta. Aveva un’ammirazione infinita per Sandro Penna. Amava Rumi il poeta afghano. Come se nell’intimità, questo mondo folle, Pop e mondiale delle copertine dovesse essere accompagnato da una certa “spiritualità” attraverso le poesie. Quando recitava la sua preferita, “Mi illumino d’immenso”, era subito felice. Se le ha scritte con la mano sinistra è perché la scrittura, così, scritta con la mano che non sa, diventa bella. Diventa un elemento estetico, una nuova iconografia. Aveva scoperto nel 1962 al Petit Palais a Parigi, una mostra sull’arte giapponese. Era rimasto sconvolto dai kakemono: calligrafie giapponesi con frasi semplici e poetiche su seta. Le lettere diventano bellissime e allo stesso tempo trasmettono un messaggio. Proprio come i suoi piccoli ricami… «Scrivere con la sinistra è disegnare», diceva Boetti. La sua calligrafia con la mano sinistra è difficile da decifrare. Per me è ormai un esercizio semplice, ma la sua volontà era che le frasi, spesso senza punteggiatura, maiuscole o spazi, diventassero quasi impossibili da leggere. Questo sicuramente per pudore, perché erano spesso come un diario. I pensieri più privati erano poi interrotti da una matita che avrebbe diviso in quattro parti il foglio, impedendo definitivamente la lettura.
I Mille Fiumi
I mille fiumi più lunghi del mondo è un lavoro del 1977, in un periodo cruciale della ricerca di Alighiero Boetti. Quali erano, secondo lei, le premesse concettuali che hanno portato alla nascita di quest’opera?
L’idea di classificazione è sempre stata presente nel lavoro di Boetti. Invito Stein» (1966-67), per esempio è una classificazione di diversi suoi materiali “Arte Povera”. Le «Vernici industriali» anche. Boetti classificava tutti quelli che avevano il suo stesso numero di telefono ma in altre città, o tutti quelli nati a Torino lo stesso giorno della sua nascita. Prima dei fiumi aveva provato a classificare le mille montagne più alte del mondo, ma il progetto fu presto abbandonato. Sicuramente amava di più l’idea del fiume, perché il fiume è al centro della società. Le città si sono spesso costruite attorno ad un fiume. È un segno di ricchezza e prosperità. Boetti diceva anche spesso che i fiumi sono liquidi, legati alla femminilità che tanto amava. Tanti fiumi sono mitici, dal Nilo al Mississippi. Lui amava il Po. Ci gettò anche diverse pietre sulle quali aveva fatto un «Autoritratto in negativo», con la speranza che un giorno qualcuno ne ritrovi uno e fosse felice come se avesse trovato un bronzo di Riace. Mi regalava ogni natale per forse 10 anni un oggetto, sempre lo stesso ma attualizzato: Il guiness book dei record. Quante ore a leggerlo. Una volta, quando aveva appena atterrato a New York mi chiamo per dirmi che nel suo aereo c’è vicino a lui l’uomo più alto del mondo. Lo aveva riconosciuto!
Il titolo stesso richiama una volontà enciclopedica. Cosa dice questa opera sul modo in cui Boetti guardava al sapere e alla conoscenza?
Boetti e Annemarie rimasero molto stupiti dal fatto che non esistesse già una classificazione dei fiumi. Ma è follia immaginare che ci possa essere qualche verità scientifica legata a questa ricerca (anche se Annemarie aveva preso l’incarico molto sul serio e fornito degli studi estremamente scientifici) chi decide dove nasce e dove finisce un fiume? Cambia forse la lunghezza in pieno inverno o alla fine dell’estate, o in un anno in cui ha piovuto tanto e uno secchissimo? Con Annemarie, all’inizio dell’Archivio dedicato all’opera di Boetti, ci siamo dette divertite che catalogare l’opera di Boetti era un’impresa folle quanto catalogare i fiumi. E lo confermo: è così. Anche in questo caso, come per le «Copertine», la volontà di Boetti non era di lasciare una traccia ma di trasmettere l’istantaneità di una situazione ad un momento preciso: il 1977. Da allora in Archivio riceviamo spesso studiosi che hanno studiato tutto il libro e ci propongono l’attualizzazione di tutti i dati. Ma questo non avrebbe senso!
La scelta di utilizzare solo il testo, senza alcuna immagine o illustrazione, è radicale. Perché Boetti decide di affidarsi unicamente alla parola scritta?
La volontà di Boetti e Annemarie era di fare un libro scientifico, non un bel libro. L’austerità della scientificità; che ala fine è bellissima di semplicità. Di solito i fiumi si guardano, ma qui si studiano. Diventano numerici e I numeri gli sono sempre piaciuti alla follia!
Alcuni leggono quest’opera come una mappa mentale o una geografia alternativa del mondo. Condivide questa lettura?
Anche in questo caso, Boetti parla del mondo, in un momento in cui forse pochi amavano e parlavano come lui del mondo e la geopolitica. Ci sono stranamente tante similitudini tra i libri delle copertine e quelli dei fiumi. Non ci avevo mai pensato, ma tutti parlano di un momento preciso nel mondo, con i suoi problemi politici e sociali. Certi paesi non hanno mai risposto ad Annemarie sulla lunghezza dei loro fiumi, perché erano in guerra. L’appartenenza di un fiume ad un paese ha creato situazioni bellicose: il Rio Grande è stato dirottato tante volte, il Danubio è stato rivendicato da diverse nazioni… Le copertine delle riviste mostravano il mondo in un anno preciso con le sue guerre, le sue problematiche esistenziali e sociali. 40 anni dopo, quando si osservano certe copertine, alcune danno i brividi perché potrebbero essere copertine attuali purtroppo… Il libro dei fiumi, invece presenta il mondo attraverso i suoi fiumi in un anno preciso. Oggi sarebbe tutta un’altra cosa, anche se non penso che alcun scientifico vorrebbe accostare il proprio nome ad una ricerca così “assurda” e poco scientifica.
In che modo I mille fiumi più lunghi del mondo dialoga con altre opere coeve come le Mappe o i lavori basati su elenchi e classificazioni?
Anche gli «Aerei» di Boetti hanno classificato tutti i diversi modelli di Aerei che volavano nei cieli italiani nel 1977. Adesso sarebbe un’altra storia! Con le «Mappe», Boetti mostrava le bandiere del mondo, sempre in un momento preciso, datando così le opere. C’è sempre tanta geopolitica nelle opere di Boetti. Ogni mese ricevo in Archivio una decina di studi su Boetti: Boetti e l’artigianato, Boetti e il viaggio, Boetti e lo straniero, Boetti e l’Arte Povera… Ma Boetti e la politica? In tante «Mappe», la Namibia è bianca come spesso Israele e a volte l’Afghanistan. Boetti era contro questi regimi politici. Le «Dodici forme» parla di Paesi in guerra nel mondo. Le copertine erano spesso scelte anche per queste ragioni. Nelle Copertine come in «I mille fiumi più lunghi del mondo» c’è l’austerità della concettualità, l’estetica indispensabile, ma soprattutto la classificazione di un mondo preciso e databile: “il tempo fa il suo lavoro anche lui”, diceva Boetti, “più una data si invecchia, più diventa bella”!