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Una veduta della mostra con la Benglis accanto all’opera «The Graces» (2003-05)

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Una veduta della mostra con la Benglis accanto all’opera «The Graces» (2003-05)

Piombo, lattice e carne

Louisa Buck

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Lynda Benglis raggiunse una folgorante e duratura notorietà con l’apparizione nell’edizione di novembre 1974 della rivista «Artforum», vestita soltanto di un paio di occhiali da sole e con un grande dildo tra le gambe. Due degli editor della rivista diedero le dimissioni e le due pagine incriminate diventarono una delle icone della storia dell’arte femminista. Oggi, la settantatreenne artista è meno provocatoria, ma continua a sondare i limiti dell’artisticamente accettabile e a sfidare l’ortodossia con i suoi materiali vari e spesso dai colori intensissimi: dal lattice pigmentato al poliuretano brillante, dalla cera d’api al glitter, dal piombo all’alluminio e al bronzo. L’opera della Benglis, nata in Louisiana e prima di cinque figli da un padre greco-americano di seconda generazione, proprietario di una ditta di forniture per l’edilizia, mentre sua madre era figlia di un sacerdote presbiteriano dell’Alabama, è esposta nei musei e viene venduta alle fiere d’arte di tutto il mondo. Dopo gli studi d’arte e filosofia, nel 1969 per mantenersi a New York lavora come segretaria della gallerista Paula Cooper, ma l’anno dopo ha già fatto il salto, tenendo nella stessa galleria una personale. Oggi è molto ammirata dai suoi colleghi. John Baldessari la descrive come «una delle scultrici viventi più innovative degli Stati Uniti», mentre Cindy Sherman dichiara che imbattersi nell’immagine della Benglis su «Artforum» fu «uno dei momenti cardine» della sua carriera. Una retrospettiva della Benglis, che abbiamo intervistato, è in corso fino al primo luglio alla Hepworth Wakefield e una mostra dedicata principalmente alle sue sculture en plein air, tra cui diverse fontane, si aprirà allo Storm King Art Centre di New York il 16 maggio.
Che cosa prova ad avere la sua prima personale in Inghilterra in un’istituzione intitolata a un’altra pioniera dell’arte femminile?
Sono eccitata perché presento tante opere, cinquanta in totale. Sono lavori che mi ricordano i miei primi passi e che mi suggeriscono che non ti puoi buttare sulle idee ma devi svilupparle poco per volta.
Alcuni artisti amano essere coinvolti nell’installazione delle loro mostre, ma lei ha lasciato questo compito ad altri.
All’inizio sentivo una forte necessità di installare le mie opere, ma a questo punto della mia vita ho così poco tempo che preferisco vivere il momento presente. In tutti i casi saranno gli altri a occuparsene quando sarò morta, quindi è meglio che si esercitino!
Uno degli aspetti che colpiscono di più del suo lavoro è la straordinaria varietà di materiali. Perché tanta abbondanza?
Mi incuriosiscono i materiali e le loro potenzialità. Posso tornare su un materiale tempo dopo averlo usato e scoprire di poterlo utilizzare in modo diverso o che quello che avevo fatto prima non era stato sviluppato al massimo e non ne ero ancora soddisfatta. Pongo diversi sillogismi e domande nell’ambito del colore e della texture, mi chiedo quali siano i tratti specifici di quel particolare materiale e lo spingo ai suoi limiti. L’ho sempre fatto, per me è l’unico modo per conoscere.
Nel 1968 creò i suoi primi «Pour paintings» colando il lattice colorato direttamente sul pavimento. Fu un modo per lanciare un guanto di sfida (di gomma!) ad artisti come Jackson Pollock e Carl Andre?
Quando ero al college, alla Tulane University di New Orleans, già riflettevo sui confini della pittura e testavo i limiti della tela nell’astrazione. Quando arrivai a New York conobbi subito alcuni dei più famosi pittori astrattisti come Barnett Newman, e ancora riflettevamo su questi confini e ci facevamo domande su che cosa fosse dopotutto l’arte. Ho realizzato dei dipinti a cera su pavimento ma la cera non andava bene per quello che avevo in mente, quindi ho inventato un modo più fisico per dipingere, con il lattice. Volevo che saltasse fuori dal pavimento, che deformasse lo spazio e la gravità, che il corpo sentisse l’opera e perdesse il suo «equilibrio». Avevo visto «Lever» di Carl Andre al Jewish Museum e avevo capito come dei semplici mattoni che spuntavano dalla parete potessero cambiare in positivo le percezioni, la gravità e lo spazio. Non mi stavo allontanando dalla pittura, stavo cercando di ridefinirla.
Perché la sua opera è attraversata da forme naturali e flussi liquidi?
In Louisiana, da ragazza, avevo la mia barca e conoscevo tutti i corsi d’acqua grandi e piccoli e i laghi della mia città, navigavamo per miglia e miglia e facevamo sci d’acqua nei laghi. Nuotavamo con i mocassini d’acqua (un serpente velenoso, Ndr) e le tartarughe e c’era anche una specie di pesce preistorico che sembra un alligatore, e stavamo bene.
Ora vive tra Santa Fe, Ahmedabad in India, Kastellorizo in Grecia, East Hampton e New York. Perché per lei è importante avere tanti contesti diversi?
Non penso che sarei riuscita a esistere vivendo solo a New York. Ci sono artisti che non hanno bisogno di spostarsi, non sentono l’urgenza di fare qualcosa fuori dal mondo che si sono creati nel contesto del proprio studio, o leggendo o qualsiasi altra cosa. Ma io ho bisogno di sperimentare, devo andare in luoghi diversi, devo vivere l’esperienza prima di poterla credere o capire: se c’è l’acqua, devo andare sott’acqua, devo immergermi, e devo farlo in posti diversi.
Questi luoghi ed esperienze diverse generano filoni diversi nella sua opera?
Sì, penso sempre: «Dove potrebbe andare questo?». Ma lo immagino anche nella mia mente molto prima di realizzarlo davvero, lo sento nella mia mente, nel mio corpo e ci vado, e il luogo mi fornisce la chiave.
Ho letto una sua dichiarazione: «Mi piace svegliarmi senza sapere dove sono!».
È assolutamente vero. Mi piace non sapere. Se penso di sapere dove sono non mi sento a mio agio, voglio andare altrove! Devo spostarmi sempre.
Detto questo lei non è sempre «on the road»; ci sono dei luoghi precisi dove torna regolarmente.
Mi ritengo fortunata perché penso che ogni luogo sia specifico. Sono realmente interessata all’universale e a portare a un livello particolare l’universale nel mio lavoro. Mi piace dare una collocazione specifica a quello che è universale per tutti noi. Per questo mi piace fare le fontane, perché sono universali e mi piace creare immagini sulla natura e l’acqua, che uniscono una sensazione a un fatto concreto. I sentimenti sono comunque eventi concreti, ma se si riesce a combinarli con un qualcosa realmente attivo allora penso ci sia molto di più da dire.
Anche se si parla di più di quarant’anni fa, lei viene ancora associata alla sua apparizione sulla tanto controversa pubblicità della rivista «Artforum» del 1974. Che cosa pensa oggi di quella performance?
Che vorrei avere ancora quel corpo! Non pensavo di avere quell’aspetto, volevo proiettare la sensazione divina di qualcosa che esisteva oltre me stessa. Feci una ricerca approfondita sulla fotografia pornografica occidentale e compresi che non esistevano cose di quel genere e ho voluto farlo.
È diventata un’icona senza tempo. È sorpresa che abbia ancora tanta attenzione?
No, perché sapevo che era una provocazione. Sapevo che sarebbe stata roba forte, una sfida, ma ho dovuto farlo. Per me era importante presentare la sessualità maschile e femminile insieme simbolicamente. Ora la mia domanda è: «Quanto potrà durare? E che cosa ci dice sulla condizione umana?». Deve avere in sé qualcosa di importante che è ancora provocatorio, ma non saprei, generazioni diverse sentono in modo diverso. E visto che non ho una risposta, mi limito a scartarla, perché capisco di non potermi proteggere da qualcosa che ero io, e che percepivo così a quel tempo.
A che cosa sta lavorando attualmente?
In questo momento mi occupo di carta. Ci lavoro già da due anni e mezzo in New Mexico. Prendo la polpa e produco i fogli di carta, poi la stendo su strutture di fili di ferro di diverse forme e la tiro fino al suo massimo, come fosse pelle, così una volta secca sembra quasi la superficie di un tamburo, altrettanto tesa, come un cadavere in un certo senso. Sto iniziando a riflettere sulla storia dell’umanità e il decesso, la rovina di qualcosa che un tempo era carne viva e attiva.
Qualunque sia la tecnica o la forma, il corpo sembra essere sempre presente.
Faccio semplicemente quello che ho sempre fatto: cercare il mio personale immaginario. Sono molto legata sia al gesto sia all’immagine, come simbolo astratto della fisicità del corpo. Pollock e altri artisti hanno detto: «Io e il materiale siamo una cosa sola» e in un certo modo sento che sto creando un corpo adesso, nella sua fisicità carnale.

Lynda Benglis con l’opera «Scarab» (1990) installata alla Hepworth Wakefield

il famoso paginone centrale con Lynda Benglis pubblicato nel numero di novembre 1974 di Artforum.

Una veduta della mostra con la Benglis accanto all’opera «The Graces» (2003-05)

Louisa Buck, 09 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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