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Chiara Pasetti
Leggi i suoi articoliParigi. Fino al 25 aprile, presso il Musée Gustave Moreau, la mostra «Gustave Moreau-Georges Rouault. Souvenirs d’atelier» accompagna il visitatore alla scoperta del legame, strettissimo, che ha unito i due artisti. Duplice legame, poiché Rouault (1871-1958) fu allievo di Moreau (1826-1898) presso l’École des beaux-arts dal 1892 al 1897, e successivamente conservatore del Museo dedicato al suo maestro dal 1902 al 1932. Non solo, la casa dove visse Moreau, diventata museo omonimo il 15 gennaio del 1903, fu anche il luogo dove si trasferì Rouault insieme alla sua famiglia a partire dal 1908.
Le quarantotto opere esposte, alcune per la prima volta, di cui una ventina sono di Rouault, sono divise in cinque sezioni, che ricalcano gli intenti dei curatori (Marie-Cécile Forest, con Emmanuelle Macé e Samuel Mandin), i quali non sono tanto, o soltanto, quelli di mostrare l’indubbia influenza dell’uno sull’altro. Influenza del resto reciproca, poiché se Rouault considerava Moreau il maestro, il suo «cher patron», e addirittura si sentiva legato a lui da un rapporto quasi filiale, che lo portò a scrivergli «siete sempre stato per me e per la mia arte la miglior guida e il Padre», Moreau considerava l’allievo come «il rappresentante della mia dottrina pittorica», e sosteneva senza esitazione di avere «una fiducia assoluta nel vostro luminoso avvenire e nel fiorire completo dei rari doni che possedete».
L’intento più profondo è in realtà quello di mettere in luce ciò che li unisce, e al contempo li divide, sul piano artistico, sul modo di affrontare temi comuni (il paesaggio, la donna, il sacro, tra gli altri) e di rappresentarli attraverso una medesima fascinazione per la materia e il colore. Si scopre così che Moreau, docente liberale, si considerava per i suoi allievi molto più un «traghettatore» che un professore: «Sono il ponte sul quale alcuni di voi passeranno», diceva. Sicuramente vi è passato il suo allievo prediletto, che dopo il primo periodo in cui la scelta dei soggetti era quella non certo imposta ma suggerita da Moreau, ossia i temi biblici o mitologici (meraviglioso, in mostra, «Giove e Semele, Variante» di Moreau, o «Tomiri e Ciro» o «La regina Tomiri», accostato a un cupo «Paesaggio notturno» o «Il Buon Samaritano» di Rouault, dove la filiazione è innegabile, come anche il fatto che vi siano già alcuni dettagli che si discostano dal tema biblico ed evocano un paesaggio, certo lugubre, tuttavia non della Palestina ai tempi di Cristo, ma della periferia di una città di cui di lì a poco Rouault sceglierà di rappresentare i suoi emarginati protagonisti, come le prostitute o gli operai), giungerà a un’evoluzione e a un’evidente differenziazione, che porterà Rouault a dipingere con uno sguardo molto diverso da quello, moralistico, del suo maestro.
Le donne di Moreau, da Salomè a Dalila o Messalina, sono tutte, come aveva notato così finemente Huysmans in À rebours, delle tentatrici, delle femmes fatales, divinità simboliche che incarnano, nel caso della sua indimenticabile Salomè, «l’indistruttibile Lussuria, l’immortale Isteria, la Bellezza maledetta» (Huysmans). E infatti i loro tratti sono sorprendentemente simili, idealizzati, privi di espressione.
Le donne di Rouault, come già prima di lui fecero Degas o Lautrec, sono prese dalla vita stessa. Sono prostitute, acrobate, ballerine, bohémiennes, donne del popolo. E lui, a differenza del maestro, le ritrae senza giudizio, senza lo scopo di stigmatizzare il vizio, ma con sincera e profonda com-passione. Le sue donne, da tragiche e talora grottesche, sotto la sua pennellata divengono sublimi. E quindi non più peccatrici, per lui, ma vittime del peccato della società che le condanna a essere tali.
Bellissima la sezione della mostra intitolata «L’amour de la matière, l’imagination de la couleur», dove come si esprimeva Louis Vauxcelles si svela e rivela che Rouault ha ereditato innanzitutto da Moreau «il gusto della materia, il senso e l’amore delle sostanze rare, degli accordi preziosi, dei arditi sfavillii», che scintillano nell’opera del maestro «La Parca e l’Angelo della Morte» (intorno al 1890), così come nel «Notturno cristiano» del 1952 di Rouault. Notturna solo nel titolo, questa tela, in realtà calda, luminosa, e come ebbe a dire Gustave Flaubert a proposito delle opere a suo parere veramente «grandi», «serena e incomprensibile».

Gustave Moreau, «La Parca e l’Angelo della morte», 1890 ca, Parigi, Musée Gustave Moreau © RMN-Grand Palais/René-Gabriel Ojéda

Georges Rouault, «Notturno cristiano», 1952, Parigi, Musée national d’art moderne-Centre de création industrielle © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais/Philippe Migeat © ADAGP Paris 2015

Studio Jules Allevy, Georges Rouault, fotografia, ca 1897?, Parigi, Fondation Georges Rouault © Fondation Georges Rouault © ADAGP Paris 2015

Éliza de Romilly, «Portrait de Gustave Moreau assis dans un fauteuil en bambou», fotografia, 8,4 x 5,6 cm, Parigi, Musée Gustave Moreau © RMN-Grand Palais/René- Gabriel Ojéda
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