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Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliDüsseldorf. È scomparso il 3 settembre scorso in quella Parigi che dal 1978 era diventata la sua dimora Peter Lindbergh, nativo della Lissa un tempo tedesca, facendo appena in tempo a curare per la prima (e ultima) volta una sua personale: è questa «Peter Lindbergh: untold stories», che il Kunstpalast di Düsseldorf ospita tra il 5 febbraio e l’1 giugno. Questa singolarità la rende ancora più preziosa, giacché artista e curatore si fondono in un’unica persona, e le donano nuance e significati più intimi rispetto a qualsiasi altra.
Perciò, chiusa la parentesi in Renania Settentrionale, viaggerà in altre sedi internazionali, dal Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, passando per l’Hessisches Landesmuseum di Darmstadt, fino al Museo Madre a Napoli. Due anni ha impiegato il celebre fotografo per lavorare a una presentazione che raccoglie 140 lavori compiuti a partire dai primi anni ’80 ad oggi, permettendo di entrare in contatto per la prima volta con alcune storie mai raccontate in precedenza e di gettare così uno sguardo più profondo sulla sua vasta opera.
Forse Lindbergh sentiva l’approssimarsi della fine e scelse perciò di tirare fuori dal cilindro delle serie sconosciute che voleva a tutti i costi raccontare e spiegare anziché lasciare ad altri la loro arbitraria interpretazione? Se ne evince, accostate ad alcune altre già famose uscite per «Vogue», «Harper’s Bazaar», «Interview», «Rolling Stone», «W Magazine» e «Wall Street Journal», la volontà di mettere in primo piano sempre l’individuo ritratto anziché il marchio di moda, la sua personale storia catturata con immediatezza ed efficacia da un solo scatto. In questo senso «untold stories» è un’eredità preziosa, un testamento artistico, la vera dichiarazione in extremis di Lindbergh sulla sua opera.
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