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I dipendenti del Tel Aviv Museum of Art hanno protestato fuori dal museo la scorsa settimana, come ogni giorno lavorativo dall’inizio di aprile

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I dipendenti del Tel Aviv Museum of Art hanno protestato fuori dal museo la scorsa settimana, come ogni giorno lavorativo dall’inizio di aprile

Le proteste dei dipendenti del Tel Aviv Museum of Art per Gaza

Prima di iniziare la giornata lavorativa, da inizio aprile alcuni membri dello staff del museo israeliano stanno fermi per trenta minuti di fronte agli ingressi in rappresentanza di una serie di posizioni sulla guerra in corso

Karen Chernick

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Ogni mattina, dall’inizio di aprile, un gruppo di dipendenti del Tel Aviv Museum of Art si posiziona davanti ai due ingressi del museo per trenta minuti, prima che le porte dell’istituzione si aprano al pubblico. In piedi, nel punto in cui l’accesso al museo confina con l’adiacente «Hostages Square» (la piazza antistante così rinominata perché luogo di ritrovo e di protesta per le famiglie degli ostaggi, Ndr), la protesta quotidiana dei membri dello staff è unica tra i musei d’arte israeliani. La contestazione organizzata dal personale (ma non autorizzata dal museo) racchiude un’ampia gamma di posizioni, sulla fine della guerra, sulla situazione degli ostaggi e sul peggioramento della crisi umanitaria a Gaza, per dare voce a un movimento di protesta costante e crescente in Israele. 

In data 28 maggio sono stati raggiunti i 600 giorni dall’inizio del conflitto, motivo per cui sono state ricorrenti le proteste in tutto il Paese. «Siamo in piedi perché il dolore è diventato insopportabile, ha scritto la settimana scorsa in un messaggio ai colleghi la curatrice senior del Dipartimento di arte israeliana Dalit Matatyahu, che ha dato il via a queste proteste. Non tutti sono in piedi esattamente per lo stesso motivo. Una voce interiore diversa parla in ognuno di noi, ma siamo in piedi, insieme, in nome della resistenza, come promemoria quotidiano, per una mezz’ora silenziosa, riconoscendo che non possiamo andare avanti come se nulla fosse accaduto».

Al momento di decidere quale forma di protesta adottare, tra i dipendenti si è discusso se aspettare che il sindacato o la direzione del museo decidessero un eventuale sciopero, simile a quello nazionale a cui si era unito a settembre dopo che sei ostaggi furono giustiziati dai loro rapitori. Alla fine, non volendo più aspettare, Matatyahu e altri hanno deciso di fare qualcosa da soli, in quanto singoli individui.

«C’è così tanto da protestare. Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo, spiega Mira Lapidot, curatrice capo del museo, a «The Art Newspaper». Non si tratta di uno contro l’altro: per gli ostaggi o perché non si parla di Gaza, o viceversa. Si tratta dello stesso orribile disprezzo per la vita umana. Nessun orizzonte o piano costruttivo. Solo cicli sempre più frequenti di disperazione e odio. È insopportabile».

Oltre ai molteplici motivi di protesta, Matatyahu ha illustrato la necessità di fare qualcosa che evidenziasse il brusco passaggio dalla «Hostages Square» al museo, in cui continuare a lavorare facendo finta di nulla era impossibile. Ricoperta di adesivi, striscioni, tende e varie installazioni legate ai singoli ostaggi e alla situazione degli ostaggi in generale, la piazza, un tempo spazio aperto pieno di sculture moderniste, porta ora un grosso carico emotivo.

«Il passaggio, ogni mattina, dalla piazza degli ostaggi al nostro luogo di lavoro è molto pesante, dice Shahar Molcho, curatrice del Dipartimento di arte contemporanea. Ci troviamo di fronte a uno dei luoghi più tristi e pieni di speranza, di fronte alla Kirya [base militare] e vicino al tribunale. Questo luogo è carico ed è diventato un sito attivo di disordini civili, e come dipendenti di un’istituzione artistica e culturale sentiamo l’obbligo morale di stare in piedi e riconoscere che le ingiustizie non hanno fine e continuano finché questa guerra continua».

Karen Chernick, 03 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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