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Marisa Merz, Untitled, senza data. Collection of Anish Kapoor Courtesy Gladstone Gallery

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Marisa Merz, Untitled, senza data. Collection of Anish Kapoor Courtesy Gladstone Gallery

L'altra metà di Merz

Anna Costantini

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New York. «Marisa Merz: The Sky is a Great Space», mostra che si apre il 24 gennaio e rimane aperta fino al 7 maggio negli spazi del Met Breuer, è la prima opportunità negli Stati Uniti di valutare nel suo complesso l’attività di un’artista troppo a lungo conosciuta solo attraverso sporadiche tracce.
Dopo l’antologica che la Fondazione Merz ha allestito nel 2012 a Torino e il riconoscimento attribuitole dalla Biennale di Venezia con il Leone d’oro alla carriera nel 2013, cui subito dopo è seguita una mostra alla Serpentine Gallery di Londra, è ora il momento di raccontare anche oltreoceano il percorso di questa artista che ha fatto della sottigliezza e della delicatezza di temi, materiali e contenuti una delle sue caratteristiche principali. Curata da Connie Butler, curatore capo presso l’Hammer Museum di Los Angeles, e da Ian Alteveer, curatore associato del Dipartimento di Arte moderna e contemporanea del Metropolitan Museum di New York, la mostra raccoglie cinque decenni di opere. Il percorso spazia dalle sculture realizzate con lamine di alluminio del 1966, le «sculture in alluminio sospese sotto il cielo», come le descrisse Mario Merz, marito dell’artista, ai lavori realizzati negli anni Settanta in maglia di filo di rame o in nylon, lana e ancora rame per raccontare l’infanzia della figlia Beatrice (oggi presidente della Fondazione torinese intitolata ai genitori) fino alla serie delle «testine» in creta, a volte arricchite da inserti di foglie in oro. «L'Hammer Museum è tradizionalmente attento a presentare artisti il cui lavoro è rimasto al di fuori delle narrazioni storico-artistiche consolidate», spiega Connie Butler a «Il Giornale dell’Arte». «Marisa Merz è una di questi artisti: la sua è una visione personale che richiede tempi lunghi e un’attenzione protratta per comprendere i tanti modi in cui il suo lavoro ha contribuito e nello stesso tempo si è significativamente allontanato dal gruppo e dallo spirito dell’Arte povera».

Nata nel 1926, l’artista esordisce nel 1967 a Torino, precedendo di alcuni mesi la prima mostra dell’Arte povera inaugurata a Genova nel settembre dello stesso anno. L’anno seguente partecipa alla rassegna «Arte povera + Azioni povere», a cura di Germano Celant, dove, sulla spiaggia di Amalfi, realizza un’installazione (che non viene però documentata in catalogo) con coperte arrotolate e imballate con filo di rame e le opere dedicate alla figlia Beatrice. Oggi Marisa Merz è anche espressione, soprattutto negli Stati Uniti, di un percorso solitario di differenza e di genere che, quasi mai rivendicato, ha fatto della sua silente partecipazione all’arte un intreccio unico con le circostanze della sua vita, dalla maternità alla presenza attiva nei momenti storico-artistici attraversati insieme a Mario Merz.
La mostra e il catalogo, pubblicato dall’Hammer Museum di Los Angeles dove la retrospettiva si trasferirà da New York a partire dal 4 giugno fino al 20 agosto, sono realizzati in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino.

Marisa Merz alla Biennale di Venezia del 2013, con il Leone d'oro alla carriera. Foto Giorgio Zucchiatti

Marisa Merz, Untitled, 1994. Foto: Daniel Jackson

Marisa Merz, Untitled, 2009, Foto: Paolo Pellion di Persano

Marisa Merz, Fontana, 1992, Walker Art Center, Minneapolis

Marisa Merz, Testa, 1984–95. Courtesy l'artista e Fondazione Merz. Foto di Paolo Pellion di Persano

Marisa Merz, Untitled, senza data. Collection of Anish Kapoor Courtesy Gladstone Gallery

Anna Costantini, 19 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

L'altra metà di Merz | Anna Costantini

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