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La storia e la geografia oggi sono più grandi

Louisa Buck

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Frances Morris, da gennaio direttrice della Tate Modern, è una curatrice che gode di grande rispetto, con al suo attivo mostre come la rivoluzionaria «Rites of Passage: Art for the End of the Century» (1995; curata con lo scomparso Stuart Morgan); «Zero to Infinity: Arte Povera 1962-1972» (2001) e importanti retrospettive dedicate a Louise Bourgeois (2007), Yayoi Kusama (2012) e Agnes Martin (2015). La prossima estate organizzerà una mostra del lavoro di Alberto Giacometti con Catherine Grenier. 

Quali sono i cambiamenti principali nella linea della Tate Modern?

La novità principale è l’apertura internazionale. In giro per il mondo a partire dal 2000 si sta producendo arte molto interessante; abbiamo acquisito importanti opere di artisti chiave che provengono da Rio, Bangalore, Johannesburg, Zagabria e molti altri luoghi. Si tratta di lavori diversi tra loro ed è un passaggio radicale da un centro dominante a molti centri interconnessi. Anche se il 75% delle opere esposte sono nuove, non tutte sono d’arte contemporanea. La collezione in origine fu allestita seguendo una storia dell’arte dominante con la quale abbiamo familiarità, ma la vera storia ha un respiro maggiore, che lascia fuori molti luoghi e tipi di pratica artistica e molte donne artiste. Non abbiamo riscritto la storia, ma ci siamo fatti delle domande sulla sua pianificazione.

Come saranno organizzate ora le collezioni?

Nella Boiler House (l’edificio originario della Tate Modern) proponiamo quattro diversi approcci. Non si tratta di temi quanto piuttosto di un contesto nel quale osservare l’arte moderna dal 1900 ai giorni nostri. Un approccio permette di apprezzare il modo in cui gli artisti usano i materiali, dal ready-made alla pittura sperimentale, un altro è focalizzato sul modo in cui gli artisti lavorano nei loro studi, il terzo sul rapporto tra artista e società e il quarto sul rapporto tra artisti, media e network di comunicazione. C’è una forte preponderanza di sale monografiche, che contengono grandi opere d’arte; ci saranno nuove acquisizioni ma anche tutte le icone importanti del museo. È un po’ come mettere insieme vecchi e nuovi amici, dove i nuovi sono sia opere contemporanee sia opere moderne di provenienza non occidentale.

Come si collega tutto ciò al nuovo edificio?

C’è un leggero cambio di marcia perché la Switch House rappresenta davvero la storia attuale. Guarda agli anni Sessanta fino al presente e i Tanks (lo spazio dedicato alla performance a livello interrato, Ndr) ne costituiscono letteralmente le radici artistiche. In un certo senso l’intero edificio è costruito intorno a narrative che spiegano la storia della pratica live contemporanea e la pratica interattiva. Da quando lavoro alla collezione, le sue quattro grandi imprese sono state: collezionare e pianificare la storia dell’arte performativa; ampliare l’ambito internazionale nell’arte moderna e contemporanea; collezionare film e nuovi media e, aspetto fondamentale, il genere. Sono queste le storie che il nuovo edificio racconterà, con un collegamento con le vicende di più ampia portata della Boiler House.

Una critica frequente alle gallerie della Boiler House è che si assomigliano molto tra di loro, mentre la Switch House propone una maggiore varietà.

La differenza è che, parlando in senso generale, a ogni piano le gallerie sono diverse. Non avrete la sensazione che si prova in molti altri musei come il Whitney, il MoMA, il New Museum. Non vi chiederete «Dove sono?» perché le gallerie sono tutte uguali. Nella Switch House ci sono caratteristiche molto diverse, dal punto di arrivo nell’atrio alle gallerie. Sarà possibile anche una lettura incrociata tra i due edifici. Quando si osserva la scultura sperimentale nella Switch House, è evidente che esistono forti rapporti con le opere appena viste nella Boiler House e viceversa. È il caso di una esposizione di opere di Joseph Beuys nel gruppo delle gallerie della Boiler House chiamata «Artists and Society» e nella Switch House il lavoro di Ana Lupas, che era l’equivalente di Beuys nell’Europa dell’Est, e realizzò opere straordinarie con le comunità rurali della Transilvania negli anni Sessanta. Sono entrambi artisti fondamentali che diedero vita al concetto di scultura sociale e rifletterono su come si possono affrontare tematiche sociali e politiche attraverso la scultura e la reazione degli osservatori.

Come per il contenuto degli allestimenti, il codice genetico delle gallerie è la sezione dei Tanks, al piano interrato.

L’aspetto interessante della Boiler House è che potevamo soddisfare la preferenza degli artisti per gli spazi industriali. Eppure le gallerie dove abbiamo lavorato sono un ibrido tra un cubo bianco e uno spazio industriale. Quello che mi piace della Switch House è che abbiamo mantenuto l’essenzialità dei Tanks, che sono davvero, autenticamente industriali. Non sono molti i musei che sono stati capaci di resistere alla tentazione di creare infrastrutture che si allontanano da questo stile. Sono molto contenta di questo.

Lei è alla Tate da quasi trent’anni e avrebbe potuto fare domanda per il posto di direttore un paio di volte in passato...

Nelle occasioni precedenti ero molto presa da quello che stavo facendo. Conosco molti direttori che vogliono fare solo questo, ma io non ho mai desiderato il potere per il gusto di averlo. Sono sempre stata molto concentrata sui progetti e quando è arrivato Vicente (Todolí, il secondo direttore della Tate Modern), avevo appena iniziato a occuparmi degli allestimenti, un lavoro che adoravo, e quando se n’è andato mi stavo dedicando ad ampliare la collezione, quindi di nuovo non volevo abbandonare il mio mondo. Ma quando sono state annunciate le dimissioni di Chris Dercon ho pensato: «Non voglio lavorare per un altro direttore!». Avevo investito dieci anni nella costruzione di questa collezione e volevo lavorare con le opere, volevo tutelarle e sostenerle.

Louisa Buck, 24 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

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