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Massimiliano Capella
Leggi i suoi articoliDa Parigi a Seul, da Milano a Mumbai, al The Museum at FIT sfilano la capitali tradizionali e i centri emergenti della moda: come accade per le biennali d’arte contemporanea, ormai gli eventi si succedono in tutto il mondo senza soluzione di continuità
Il potere della moda contemporanea è concentrato in alcuni selezionati centri, città che negli anni hanno saputo identificarsi con stili e brand di tendenza, diventando i luoghi per eccellenza della creatività e, allo stesso tempo, i centri economici del fashion. Parigi, Milano, Londra e New York sono le capitali della moda protagoniste della mostra «Global Fashion Capitals», allestita al The Museum at FIT di New York fino al 14 novembre. Accanto a questi centri ormai classici il percorso mette in luce anche le capitali emergenti della moda, come Seul, Shanghai, Berlino, Istanbul, Johannesburg, San Paolo del Brasile, Mumbai e Stoccolma, che contribuiscono a rendere il mondo del lusso una geografia senza soluzione di continuità, con eventi e fashion week che popolano ogni momento dell’anno. «The Sun Never Sets on the Runway» («Il sole non tramonta mai sulla passerella») ha titolato il «New York Times» nel 2008 riferendosi proprio alla moltitudine di eventi legati alla moda che nel corso dell’ultimo decennio sono emersi come nuove realtà economiche e imprenditoriali dell’industria del fashion, promotrici di quel «soft power» che comunica le nuove identità culturali da una parte all’altra del pianeta. La mostra mette in luce i due elementi centrali nella nascita di queste capitali della moda, da un lato il fattore economico messo in campo dai governi delle diverse città, dall’altro le scelte articolate e gli interessi più specifici della stampa di settore.
Attraverso 70 abiti e numerosi accessori ideati dai fashion designer che hanno operato in questi centri della moda, la mostra ripercorre le scelte economiche, culturali e critiche che hanno guidato la nascita degli stili dal 1890 ca fino alle più recenti proposte della collezione primavera-estate 2015 di Lagos (disegnata da Lisa Folawiyo). Tutti i materiali provengono dalla collezione storica del FIT e dalle recenti acquisizioni del museo, con alcuni pezzi esposti per la prima volta in America. Il percorso della mostra si apre con una mappa digitale dello stile che mette in evidenza le principali tendenze attraverso lo street style e le immagini di 20 passerelle, una per ogni capitale della moda. La produzione di ogni città viene poi presentata con approfondimenti tematici che analizzano l’identità dei diversi centri, il lavoro compiuto per affermare il primato di questi centri nella produzione del lusso.
Si parte da Parigi e dalla figura emblematica di Charles Frederick Worth, uno dei più rappresentativi designer che lavorando a stretto contatto con giornalisti, modelle, fotografi e grandi magazzini, ha contribuito alla nascita del moderno sistema del fashion nella Ville Lumière. New York viene introdotta da un abito in taffetà verde e marrone disegnato da Nettie Rosenstein che, negli anni Trenta, cercò di affermare un’identità americana ben distinta dai modelli francesi. La posizione centrale di New York nel sistema della moda si consolida però solo nel 1943, quando la città si dotò di una sua specifica Fashion Week (trasformata poi in Press Week) e, contemporaneamente, divenne il centro delle redazioni di «Vogue», «Harper’s Bazaar» e «Women’s Wear Daily», che iniziarono a dar conto anche della produzione di moda dei nuovi istituti di Fashion come il FIT, fondato nel 1944. New York è in questi anni anche il centro nazionale per la produzione della moda ready-to-wear e dell’abbigliamento sportivo, qui documentati da un abito in cotone dei primi anni cinquanta di Claire McCardell e da una serie di creazioni dei principali designer americani che nei decenni successivi hanno interpretato lo stile sportivo americano contemporaneo, da Ralph Lauren a Donna Karan e Alexander Wang. I centri della moda italiana presentati in mostra sono Roma, Firenze e Milano.
Si parte dal lavoro negli anni Quaranta di un gruppo di giovani emergenti, da Pucci a Schubert, dalle Sorelle Fontana a Ferragamo, fino all’affermazione nel 1951 dell’Italian Look grazie all’operazione culturale e commerciale avviata a Firenze da Giovanni Battista Giorgini, che garantì oltre a un’inedita visibilità per le nuove creazioni italiane anche l’affermazione di nuovi talenti quali Capucci e Valentino. Milano resta però il centro italiano del sistema della moda contemporanea che, a partire dai primi anni Settanta, ha dominato il mondo con una sperimentazione tecnica e creativa del prêt-à-porter, supportando i nuovi talenti emergenti come Gianni Versace e Giorgio Armani. Londra diviene capitale della moda negli anni della Swinging London ed è l’indipendenza dei giovani brand di quegli anni Sessanta che la mostra rievoca, da Mary Quant a Vivienne Westwood, anche quando si fa luce sul nuovo corso della moda inglese, da John Galliano ad Alexander McQueen, infinitamente debitrice alla libertà creativa ed espressiva delle origini.
Il percorso espositivo non trascura poi l’Oriente con il suo centro principale rappresentato da Tokyo e dai rivoluzionari designer giapponesi come Yohji Yamamoto, Issey Miyake e Rei Kawakubo, presentati accanto ai creativi della scuola di Anversa, da Walter Van Beirendonck a Dries Van Noten. I nuovi centri emergenti della moda ci dicono che le nuove tendenze hanno origine tra il Brasile, rappresentato da Alexandre Herchcovitch, e il Sudafrica, con Nkhensani Nkosi, tra Shanghai, con Masha Ma, e la Corea, con Lie Sangbong, fino a Nuova Dehli, con Manish Arora, e al Messico con designer come Ricardo Seco e Carla Fernández, in un nuovo sistema della moda. In occasione della giornata di studi dedicata al tema della globalità nella moda, organizzata il 13 ottobre da The Museum at FIT, Cuny Graduate Center e dalla School of Visual, Media & Performing Arts at Brooklyn College, è programmata una sfilata di moda che presenterà cinque designer provenienti dalle capitali emergenti della moda introdotti da Ariele Elia ed Elizabeth Way.
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