«Verità» (1873-78), di Antonio Mancini. © Archivio Museo dell’Ottocento

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«Verità» (1873-78), di Antonio Mancini. © Archivio Museo dell’Ottocento

Il remissivo Mancini e l’autoritario Gemito

Nel Museo dell’Ottocento di Pescara oltre 140 opere di due maestri del naturalismo ottocentesco

Il pittore Antonio Mancini (Roma, 1852-1930) e lo scultore Vincenzo Gemito (Napoli, 1852-1929) sono i protagonisti di una mostra dal taglio originale, allestita a Pescara nel Museo dell’Ottocento-Fondazione Di Persio Pallotta, dal 14 ottobre all’11 marzo e curata da Manuel Carrera, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi e Isabella Valente (catalogo Silvana Editoriale).

Attraverso 140 opere, tra dipinti, sculture e disegni provenienti da importanti raccolte pubbliche e private (il Museo dell’Ottocento espone per intero il suo nucleo di 17 opere di Mancini e 16 opere degli artisti fanno parte della Collezione Intesa Sanpaolo-Gallerie d’Italia di Milano e Napoli), il progetto persegue l’obiettivo di evidenziare tangenze e distanze tra le ricerche dei due artisti, nonché indagare il loro rapporto con il contesto artistico coevo.

Entrambi nati nel 1852 e di umili origini, Mancini e Gemito si incontrarono tredicenni alla scuola serale di San Domenico Maggiore a Napoli. Sotto la guida degli scultori Stanislao Lista ed Emanuele Caggiano, poi del pittore Domenico Morelli, la loro formazione fu man mano orientata, in contrasto con la supremazia del disegno dell’Accademia, verso sperimentazioni sul rapporto tra luce e colore, approdando a un naturalismo intriso di capacità di introspezione psicologica.
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Mancini nel maggio 1875 partì per Parigi dove rimase alcuni mesi, durante i quali conobbe alcuni mercanti d’arte come Adolphe Goupil e Alphonse Portier, artisti come Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini, Edgar Degas ed Édouard Manet. Vi tornerà insieme a Gemito nel 1877: sono ascrivibili a questo intenso periodo lavori di Mancini come «I saltimbanchi suonatori» (1877) e «Verità» (1873-78), opera assolutamente anticonvenzionale, concepita secondo Manuel Carrera «in un flusso di co-scienza visivo che sembra anticipare, senza volerlo, alcuni aspetti della pittura surrealista».

A Parigi però le differenze caratteriali tra i due, Mancini mite e remissivo, Gemito volitivo e autoritario, portarono nel 1878 alla rottura dell’amicizia, acuita da difficoltà economiche e dalle malattie psichiche di cui entrambi soffrivano. Le loro carriere presero quindi strade diverse: Mancini, dopo un periodo trascorso al manicomio, nel 1883 si trasferì a Roma dove riuscì a inserirsi nello scenario artistico, entrò in contatto con collezionisti e conquistò fama internazionale; Vincenzo Gemito, tornato a Napoli, tormentato da un esaurimento psichico, scelse di condurre una vita appartata e solitaria, orientando la sua opera verso la riflessione sull’arte ellenistica, come testimoniano alcuni bronzetti e la cera «Maschera dell’Imperatore Alessandro» (1920 ca, Gam, Milano), ma anche verso la tecnica del disegno, concepita come autonoma e in parallelo a quella plastica (esposti  dell’artista esempi significativi della serie di autoritratti).

«Maschera dell’Imperatore Alessandro» (1920), di Vincenzo Gemito. © Comune di Milano. Foto di Luca Postini

Marta Paraventi, 12 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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Il remissivo Mancini e l’autoritario Gemito | Marta Paraventi

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