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Il mondo esplode, gli artisti scappano

Il mondo esplode, gli artisti scappano

Roxana Azimi, Harry Bellet

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L’epoca che stiamo attraversando è tra le più tormentate della storia, ma nelle opere d’arte (e nelle azioni dei loro autori) restano poche tracce

Le recenti mobilitazioni in Francia degli artisti contemporanei contro le posizioni del Front National hanno trovato espressione in testi, manifesti, petizioni, manifestazioni, talvolta gioiose più spesso preoccupanti, ma poco nelle opere. Al contrario, se ci sono degli artisti che denunciano nelle loro opere la condizione dei migranti, pochi si attivano in altro modo: tra le 800 prime firme dell’Appel de Calais, che denunciava la situazione di vita dei rifugiati, comparivano solo quelle di Thomas Hirschhorn, Sophie Calle e Joana Hadjithomas. Gli artisti si disinteressano forse al caos del mondo? (...)

«L’arte contro l’Aids non serve a nulla: usate il preservativo», constatava nel 1995 l’artista Olivier Blanckart, uno dei rari a essere sempre stato ispirato dalle questioni civiche e che all’epoca aveva appena trascorso tre anni a lavorare in un’associazione di cure domiciliari per i malati di Aids. (...) La mostra «Face à l’Histoire», realizzata nel 1996 da Jean-Paul Ameline al Centre Pompidou di Parigi, aveva esplorato proprio questo aspetto: una delle lezioni che se ne poté ricavare fu che, nella rappresentazione delle disgrazie del mondo, la pittura o la scultura, durante il Novecento, hanno perso forza e sono state poco alla volta soppiantate dalla fotografia prima e dal video dopo. Una realtà che si può constatare ancora oggi. Per quanto riguarda la presa di coscienza di un dramma, l’immagine di un bambino morto annegato su una spiaggia è, purtroppo, molto più efficace di un’opera d’arte visiva. Nel 1991, Chris Burden esponeva al MoMA di New York una risposta al memoriale di Washington dedicato ai soldati caduti in Vietnam: i pannelli di «The Other Vietnam Memorial», dove figurano i nomi di tre milioni di vietnamiti uccisi durante la guerra. Chi lo ricorda? La fotografia della ragazzina nuda che corre per fuggire al napalm resta invece nella memoria collettiva. Tuttavia, è un artista italiano, Maurizio Cattelan, che ha dato ai migranti un monumento: nove corpi distesi, allineati come cadaveri su un greto, ma scolpiti nel marmo. Ed è sempre un altro artista, il britannico Banksy, ad aver realizzato di recente tre immagini molto forti, tutte dipinte sui muri di Calais. Una, vicino alla «giungla», mostra un ritratto di Steve Jobs, uno dei creatori di Apple, con un fagotto in spalla: l’artista vuole ricordare che il padre del fondatore di una società con un fatturato al fisco americano di 7 miliardi di dollari era un emigrato siriano. Un’altra rappresenta una ragazzina che osserva l’orizzonte attraverso un cannocchiale senza vedere l’avvoltoio che le si è posato sopra guardandola con bramosia o voracità. L’ultima riprende l’immagine della «Zattera della Medusa» (...); solo che al posto dell’imbarcazione di salvataggio che nell’originale compare all’orizzonte, Banksy ha dipinto uno di quei traghetti che giornalmente coprono la tratta Calais-Dover, che passa indifferente alla sorte dei naufraghi.

Oggi gli artisti si confrontano ancora con la storia? Alcuni sì, ma con egocentrismo. «La passione del collettivo è stata sostituita da quella per il soggetto», constata lo storico dell’arte Paul Ardenne. Non è più il tempo dell’indignazione di massa, ma quello del solipsismo. La cultura del dubbio e il naufragio dei grandi racconti sono passati da questa strada. Gli artisti non si trovano più in opposizioni nette, quasi manichee, ma in una zona grigia e indefinita. Se i più famosi si sottraggono a qualsiasi creazione troppo politica, salvo talvolta sul registro della provocazione stupida e cattiva, è perché queste opere creano spesso scompiglio. E il mercato non lo apprezza. Certo, ci sono alcuni collezionisti originali come Edouard Carmignac, nel cui ufficio troneggiano un ritratto di Lenin e uno di Mao, ma sono opere di Warhol, fatto che ne attenua notevolmente la carica politica. L’impegno totale di un artista come Paul Rebeyrolle, uno dei migliori pittori francesi del dopoguerra, spiega senza dubbio i prezzi incomprensibilmente bassi che le sue opere non riescono a superare, nonostante il suo talento: un banchiere, non sprovvisto di senso dell’umorismo, era interessato alla serie «Le Monétarisme», ma i quadri delle serie «Guérilleros» e «Faillite de la science bourgeoise» o «Germinal» sono un’altra faccenda... Questo aspetto è confermato da Bruno Serralongue, che ammette di vendere poco. La sua galleria, Air de Paris, è attiva nel settore dell’arte e non del fotogiornalismo. Il suo lavoro è aderente alla realtà. Eppure è impossibile definirlo puramente documentario. L’artista cura le sue composizioni, presta attenzione alla qualità dell’immagine, ma non crede alla drammatizzazione alla Sebastião Salgado. A differenza di certi fotogiornalisti, non è sembrato fuori dal mondo. «So di che cosa parlo, dichiara. La fotografia di cronaca tende a essere il più vicino possibile all’avvenimento. Penso che se ne possa parlare pur mantenendolo alla giusta distanza». Rari sono coloro che rinunciano a una mostra, ancora meno a una vendita, per ragioni politiche. Possiamo quindi rendere omaggio alla memoria di Arman, che nel 1990 aveva annullato una retrospettiva destinata a celebrare l’apertura del nuovo Musée d’art moderne di Nizza per protestare contro affermazioni dell’allora sindaco Jacques Médecin considerate razziste. Il libanese Walid Raad oggi rifiuta di vendere opere al museo di Abu Dhabi, in segno di protesta contro la situazione degli operai dei grandi cantieri, che resta deplorevole. Ma, paradossalmente, non dice no al Qatar, dove i diritti degli uomini non sono certo trattati con maggior riguardo. Spesso l’indignazione è volubile...

Qualche eccezione tuttavia esiste (...). Al Jeu de Paume di Parigi è stata la mostra della fotografa palestinese Ahlam Shibli a scatenare un certo scompiglio. Le istituzioni non rifuggono solo la polemica. Hanno gli occhi puntati sulle casse che non si rimpinguano affatto con le mostre di soggetto politico: persino «Face à l’histoire», nonostante le ambizioni, fu tutt’altro che il più grande successo di pubblico del Centre Pompidou. Per aggirare il problema, il Jeu de Paume presenta spesso una mostra storica, che attira da 100mila a 150mila visitatori, insieme a un’altra più contemporanea e complessa, che arriva al massimo a 35-45mila. «L’obiettivo è che i due diversi tipi di pubblico si contaminino», dice sorridendo Marta Gili, direttrice del centro artistico. Se la programmazione del Jeu de Paume è così interessata all’impegno politico è perché la sua direttrice è nata nella Spagna franchista: «Avevo 18 anni quando abbiamo dovuto creare una democrazia, ricorda. Abbiamo dovuto tutti contribuire, mentre in Francia era una realtà acquisita, confortevole, dove non ci si facevano domande». Nelle contrade sconvolte da crisi e conflitti, gli artisti sono molto più cauti. La messicana Teresa Margolles non ha esitato a soggiornare in diverse riprese a Ciudad Juárez, città che in otto anni è stata teatro di più di 10mila omicidi legati al traffico della droga. Da questi lunghi soggiorni è nata un’opera di rara potenza, che si esprime in violenza sorda, ma anche qualche insegnamento. «Ho imparato molto del mio corpo, rivela. Quando si vive in una bolla sicura non ce ne rendiamo conto. Questa città mi ha dato molta forza per ascoltare, respirare, mi ha insegnato a rispettare la vita». Anche in Paesi dov’è impossibile sfuggire alla dura realtà, alcuni si trattengono per timore della censura. Ai Rencontres africaines de la photographie di Bamako, la Biennale di fotografia che si svolge in Mali, solo un artista, il malese Aboubacar Traoré, ha illustrato la crescita dell’integralismo religioso che minaccia il suo Paese con personaggi le cui teste sono state sostituite da zucche nere, metafora dell’oscurantismo. «Forse ora la gente è in un momento in cui desidera passare ad altro», rivela Yves Chatap, cocuratore dei Rencontres. O forse non vogliono essere ridotti a una situazione più grande di loro. Così in Iran, uno degli artisti più quotati, Farhad Moshiri, afferma di non essere politico: «Tendo a evitare le conversazioni di questo genere». All’estremo opposto, il suo collega Barbad Golshiri aiuta famiglie di prigionieri politici, lancia petizioni, senza comunque rinunciare a una pratica artistica prevalentemente poetica. È del resto uno dei pochi a evitare quel deficit estetico che può rovinare le opere militanti.

L’arte impegnata infatti è spesso povera. Almeno esiste un divario tra l’arte politica sottile, poco vistosa, e quella di petizione o contestazione. «Più ci si impegna e più si riduce il campo della ricerca estetica, più la forma si chiude in un discorso che trionfa a danno dell’opera, la cui scrittura si trova d’improvviso semplificata», afferma Paul Ardenne. L’inferno artistico è lastricato di buoni sentimenti e non è «Massacro in Corea» di Picasso che lo potrà smentire. Paul Ardenne lo sottolinea: «L’emozione non è un motore potente della creatività artistica. Se qualcosa è fatto con impeto si tradurrà in forme molto convenzionali». Come a dire che i grandi avvenimenti non fanno le grandi opere, con l’eccezione di «Guernica». L’esempio peggiore in materia è stata senza dubbio la Biennale di Berlino del 2012, sotto il segno degli «indignati». Non c’era praticamente nulla da vedere, era tutto da concepire, da seminare, da discutere. Non c’erano più né artisti né spettatori, ma cittadini. «Un artista impegnato non mi interessa, dice Marta Gili. Un artista non deve militare, ma fare domande, giocare con l’ambiguità». Se la contestazione prende il sopravvento è meglio voltare la pagina dell’arte. La tedesca Charlotte Posenenske l’ha fatto nel 1968. Sopravvissuta alla Shoah, ha deciso di concludere la sua carriera di artista minimalista per dedicarsi all’attivismo sociale. In un manifesto, dichiarava: «L’arte non può far niente per risolvere i problemi sociali». 

© Le Monde

 

Roxana Azimi, Harry Bellet, 24 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

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