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Il mercante spesso anticipa lo storico dell'arte

Il mercante spesso anticipa lo storico dell'arte

Francesca Romana Morelli

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Il Neoclassicismo è la linea scelta da Carlo Virgilio e Stefano Grandesso: «La nostra forza? Non comprare alle aste ma da privati. La nostra debolezza? La lentezza burocratica sulle esportazioni»

In clima di riflusso postmoderno, nel 1979, in via della Lupa in Campo Marzio, il giovane Carlo Virgilio apriva una galleria del disegno tra Neoclassicismo e Ottocento, una sorta di «no man’s land» su cui gli studi storiografici si affacciavano in quel decennio. Una sottile scelta, quella di Carlo Virgilio (Avellino, 1941), mirata a pittori di ambito classicista e accademico, come Fortunato Duranti, Felice Giani e Tommaso Minardi, i cui disegni costituiscono uno squarcio nella loro pittura, lasciando intravedere il lato più intimo e inquieto della loro personalità; un modo fantastico di rivisitare l’antichità, vicino a Füssli. In questo terreno impervio Carlo Virgilio ha camminato con studiosi in grado di ricollocare questi frammenti persi alla memoria artistica: Stefano Susinno, Fernando Mazzocca, Marina Miraglia, Mario Quesada, Alvar González-Palacios, Anna Ottani Cavina, Maurizio Fagiolo, Christoph Luitpold Frommel, e con letterati che hanno scritto per le mostre: Franco Marcoaldi, Erri De Luca, Enzo Siciliano, Niccolò Ammanniti, Patrizia Cavalli e Umberto Eco. La sua galleria antiquaria è forse l’unica a Roma che da allora ha mantenuto costantemente la rotta, seppure con qualche accorto aggiustamento. 

L’interesse specialistico per il disegno, con il tempo allargato alla pittura, alla scultura, più raramente alla fotografia, ha portato il gallerista a esplorare la prima metà del Novecento, con incursioni nel contemporaneo. Nel 1994 a San Casciano dei Bagni, con la direzione di Susinno e della Miraglia, apre una scuola di restauro e conservazione della fotografia storica, dedicata alla formazione di una figura professionale all’epoca mancante, a fronte di un patrimonio censito immenso e in costante aumento. «Il podere toscano è stato un riferimento per amici studiosi che, con Susinno, ospitavamo specialmente in estate, rammenta Virgilio. L’atmosfera rilassante favoriva la discussione intorno a progetti culturali. Anne Percy e Joseph J. Rishel vi idearono, con Susinno, “The Splendor of 18th Century Rome”, mostra aperta al Philadelphia Museum of Art nel 2000». 

Nel 2003 al Borghetto Flaminio, a due passi da piazza del Popolo, con Maria Paola Maino, amica di una vita ed esperta di arti applicate, ristrutturano magnificamente un capannone industriale, finalizzato ad accogliere il Centro Studi Stefano Susinno, lo studioso scomparso prematuramente nel 2002 che aveva lasciato 20mila volumi e una fototeca relativi all’arte romana tra Otto e Novecento, e un vasto ambiente dove allestire mostre di Giosetta Fioroni, Marco Tirelli, i cinesi Gao Brothers, Giuseppe Ducrot e tanti altri, nonché eventi letterari e musicali. Nel 2005 Jean Clair, sulla scia della mostra «Mélancolie. Génie et folie en Occident» curata al Grand Palais di Parigi, interviene con una conferenza all’inaugurazione della mostra «Sotto il segno di Saturno». 

È del 2006 la società stretta con il più giovane Stefano Grandesso (Venezia, 1969), professore e studioso di scultura tra Sette e Ottocento, in particolare di Pietro Tenerani e Bertel Thorvaldsen, sui quali ha scritto monografie. È appena stata pubblicata la nuova versione ampliata e tradotta in inglese della sua monografia dedicata allo scultore danese (edita da SilvanaEditoriale), promossa dal Thorvaldsen Museum di Copenaghen, del cui Advisory Board Grandesso fa parte per The Thorvaldsen Archives. Grandesso ha contribuito a realizzare le recenti mostre canoviane in Italia e, con Mazzocca e Francesco Leone, ha firmato la mostra «Canova e l’ideale classico tra pittura e scultura» a Forlì nel 2009. In realtà la sua specializzazione lo porta  a interessarsi anche all’arte della prima metà del Novecento. Abbiamo incontrato Carlo Virgilio e Stefano Grandesso nella loro galleria.

Carlo Virgilio, com’è nata l’idea di aprire una galleria?

Laureato in Sociologia a Trento, feci esperienze di docenza a Urbino e a Trieste. La mia strada era ben tracciata. La tesi di dottorato sui fenomeni politici, in particolare il finanziamento dei partiti, mi portò a Roma, dove frequentavo per ragioni di studio le segreterie dei partiti e dei sindacati. Intervistando il deputato democristiano, della corrente dorotea, Flaminio Piccoli, mi scoprii a scrutare un grande dipinto del nazareno Rittig alle sue spalle. Quel quadro continua tuttora a sorprendermi con la sua presenza nella nostra galleria. Il superamento di un difficile stato di salute, mi spinse poi a buttarmi dietro le spalle la vita precedente. Avevo preso a collezionare disegni romani di figura tra Neoclassicismo e Accademia. Entrare in possesso di un magnifico foglio equivaleva alla rinuncia di un paio di nuove scarpe, poca cosa dunque. Un giorno sparpagliai a terra una quarantina di disegni, davanti allo sguardo riflessivo dei miei amici studiosi: furono concordi che si poteva trarne una mostra. La mia galleria sarebbe andata a completare il mercato del disegno antico, dove Marcello Aldega si occupava della produzione tra Cinque e Seicento. Davvero rara per l’epoca, fu la stesura di un catalogo scientifico, introdotto da Cristina Bonagura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e stampato in tipografia. Orgoglioso del mio studio, lo mostrai all’amico Marco Boato, a quel tempo leader di Lotta Continua, che, con mia grande felicità, sentenziò: «È spartano come il tuo carattere».

Alla fine degli anni Settanta com’era il mercato?

Ora so di avere perso occasioni straordinarie, rinchiuso nel mio bozzolo del disegno ottocentesco. Quel mercato, che non mi apparteneva, era eccezionale, soprattutto per quanto riguarda le possibilità sui quadri settecenteschi. A Roma il mondo dell’antiquariato era vivacissimo, via dei Coronari ribolliva di negozi. Era sufficiente una passeggiata da piazza di Spagna a piazza del Popolo per imbattersi in qualche pezzo magnifico.

Chi erano i suoi collezionisti?

Li contavo sulle dita di una mano! Erano soprattutto gli studiosi, desiderosi di collezionare ma a prezzi accessibili. La mia galleria è stata sempre un luogo di incontro di storici e studiosi, molti dei quali stranieri.

Come ha incontrato Stefano Grandesso?

Consigliato da Mazzocca, del quale era allievo all’Università di Venezia. Stefano studiava Tenerani, un artista emerso in seguito alla mostra su Thorvaldsen alla Gnam (1989). Venne a Roma per fare la specializzazione con Susinno, poi il dottorato e così ci conoscemmo. I maestri di Stefano mi chiesero esplicitamente di non fuorviare la sua natura di studioso. A San Casciano lo invitai a una giornata di studio su Tenerani, finalizzata ad acquisire parte dell’archivio dello scultore da donare al Museo di Roma. Per entrambi l’antiquariato è un atteggiamento morale e mentale attraverso cui poter realizzare la propria identità, definire la propria Weltanschauung. Il «mercato» è una parola nobile quando è fatto coerentemente al modo di essere nella vita; spesso riesce con le sue scoperte ad anticipare la stessa storia dell’arte. Prima di diventare soci, abbiamo ideato insieme due progetti espositivi, una sorta di rodaggio: «Episodi di scultura», una raccolta di trenta sculture pressoché inedite, e «Gipsoteca», una cinquantina di gessi originali dell’Ottocento in Italia. Questa seconda mostra concorse a valorizzare la scultura in gesso agli occhi degli studiosi e del mercato. C’è un parallelo tra «Gipsoteca» e la mia mostra sul disegno nel 1979, due cardini della mia storia di gallerista.

Stefano Grandesso, com’è riuscito a conciliare la figura di studioso con quella di antiquario?

Quando Carlo mi chiese di stringere una società, riscoprii dentro di me un istinto collezionistico, la passione per la ricerca di un oggetto favoloso, da possedere almeno per un poco, sentimenti ereditati dal nonno antiquario, Marco Redolfi. Mi portava con sé a visitare mostre in Europa, mi insegnò il metodo morelliano dei connoisseur, facendomi esercitare su dipinti di autori anonimi. L’eccitazione provata dall’identificazione di un autore è una delle forze del nostro lavoro. Il movente che mi ha spinto a essere un antiquario risiede nella necessità di collezionare disegni, piccole sculture e bozzetti, frutto di precise committenze, progetti nelle chiese, in dimore aristocratiche. Le due figure di studioso e antiquario naturalmente si avvantaggiano sul piano dell’esperienza e della conoscenza, ma si esercitano in due sfere autonome.

Dal vostro sodalizio sono nate nuove mete per la galleria?

CV: Grazie a Stefano stiamo attraversando un nuovo territorio. Da qualche anno siamo presenti sul mercato internazionale e puntiamo a Maastricht 2017. Abbiamo iniziato nel 2013 con la mostra prodotta in collaborazione con Sperone Westwater a New York, «A Picture Gallery in the Italian Tradition of the Quadreria (1750-1850)», con inediti o capolavori di maestri meno noti al grande pubblico come Pelagio Palagi, Francesco Caucig, Bernardino Nocchi, Hubert Robert e Andrea Appiani, ma con un peso specifico nella storia dell’arte. Imboccata la strada del mercato internazionale, è giocoforza percorrerla ed è una sfida che ci affascina molto. Necessitiamo pertanto di gestire opere di sempre maggior pregio, uniche nel loro genere. Il nostro desiderio primo è di dialogare con un mercato museale internazionale e nazionale. Un ostacolo a praticare questa strada è il passaggio attraverso i permessi della burocrazia ministeriale. Lo Stato italiano deve salvaguardare il nostro patrimonio, ma non è possibile che per esportare un’opera dobbiamo fare aspettare un cliente che vive in Europa anche sei mesi, quando la legge prevede massimo quaranta giorni. Siamo così diventati terra di conquista di mercanti stranieri senza scrupoli, tanto non ci sono le frontiere.

Come ha inciso sulla vostra attività la partecipazione alle ultime tre edizioni di Paris Tableau?

SG: La nostra sfida continua è valorizzare fenomeni artistici a Roma tra Sette e Ottocento, considerati minori. Per Paris Tableau abbiamo puntato su opere con un significato più internazionale, senza tuttavia tradire le nostre origini, in altre parole valorizzare il Classicismo e l’Accademia ottocentesca, però in tratti meno comuni. Per esempio, abbiamo presentato Camuccini non con un quadro di storia, ma con frammenti o studi per la grande pala.

A che tipo di mercato vi rivolgete?

CV: In Italia, scomparsa la classe media dei collezionisti, le nuove generazioni hanno interessi culturali e modelli di vita diversi, più uniformati al gusto di Paesi stranieri. Nell’arredamento della casa il modello, che ha prodotto danni notevoli all’antiquariato, è la casa minimale di Giorgio Armani.

Scegliete sempre opere rare o inedite. Come fate?

SG: Le nostre opere sortiscono da fondi privati, mai dalle aste. Siamo una sorta di calamita che attrae verso il nostro polo una serie di rivoli, che dreniamo. Nel tempo abbiamo costruito un network internazionale di amici, nel senso umano del termine ma anche accomunato dalle stesse curiosità intellettuali, con cui abbiamo forti scambi. A Parigi abbiamo ricevuto conferme dai nostri clienti americani e da musei, anche francesi.  La prossima mostra che inaugureremo nella galleria in primavera, riunisce una trentina di progetti architettonici inediti di Armando Brasini, una delle anime del Barocchetto romano del Ventennio.

Pensate di aprire una sede all’estero in futuro?

CV: Ci pensiamo continuamente. Non è una fuga, ma una base più facilmente raggiungibile dai collezionisti stranieri. Per il momento meditiamo di partecipare il prossimo luglio alla London Week e in settembre alla Biennale di Parigi.

 

Francesca Romana Morelli, 18 marzo 2016 | © Riproduzione riservata

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