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Dalla serie «Like a Bird» (2021) di Johanna-Maria Fritz

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Dalla serie «Like a Bird» (2021) di Johanna-Maria Fritz

Futuro Presente | Dal circo alla guerra, lo sguardo di Johanna-Maria Fritz non conosce limiti

Con le sue fotografie l’artista tedesca riflette sulla complessità del mondo e invita ad apprezzare la resilienza delle persone che lo abitano

Rischa Paterlini

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La nuova generazione di fotografi e artisti visivi guarda alla contemporaneità e ai suoi temi più critici con una consapevolezza e un desiderio di sperimentazione inediti. Futuro Presente vuole dar voce ai giovani talenti che rappresentano il futuro della fotografia; un futuro che è, forse, già presente. Sono infatti più urgenti che mai le tematiche affrontate dal lavoro di questi artisti visivi: dal cambiamento climatico alla decolonizzazione dello sguardo, dall'utilizzo degli archivi storici alla rilettura delle classiche pratiche di documentazione fotografica.

A colpire, nelle opere fotografiche di Johanna-Maria Fritz (Germania, 1994), sono i dettagli e le sfumature emotive negli sguardi della gente. Scatti umani, intensi e penetranti, capaci anche di fronte a situazioni atroci come la guerra di raccontare la società, evitando ogni forma di sensazionalismo.

Dopo aver vinto nel 2017 l’Inge Morath Prize assegnato dai membri di Magnum Photo, l’artista tedesca, nel 2018,  è stata premiata con il Reportage Photojournalism Award per il suo progetto «Like a Bird», realizzato in Paesi conosciuti per le terribili condizioni di vita e per una situazione politica complicata come l’Afghanistan, la Palestina e l’Iran, e diventato anche un libro pubblicato con la casa editrice bolognese L’Artiere.

Fritz è riuscita a cogliere piccoli e semplici momenti di spensieratezza: come quando a Gaza il suo obiettivo ha immortalato un ragazzo che fa le capriole e dice di sentirsi «come un uccello» quando esce nel maneggio. Lo stesso desiderio di evadere che può essere letto anche negli occhi dei protagonisti della serie «Taliban», dell’ottobre 2021, dove volti in primo piano, catturati a Kabul, raccontano l’uomo che si cela dietro il combattente.

Le fotografie sono state scattate senza alcuna intenzione di aggiungere una connotazione eroica ai loro volti. L’obiettivo è unicamente riuscire a trasmettere l'intensità delle emozioni provate lì dove poche persone guardano. Johanna-Maria Fritz vive tra Berlino e il Medio Oriente, ma trascorre la maggior parte della sua vita viaggiando, allo scopo di catturare e rendere visibile quelle realtà che spesso vengono lasciate ai margini della società. Dopo aver studiato alla Ostkreuzschule für Fotografie (Berlino) ha sviluppato un’arte incentrata sulla riflessione dei conflitti armati e sui loro effetti verso le persone coinvolte.

Nella primavera del 2022, nel bel mezzo dell’invasione russa in Ucraina, è stata una delle prime fotoreporter a partire da Berlino per andare a Kiev. A bordo di una vecchia Golf, nessuno è riuscito a fermarla dalla sua volontà di offrire una testimonianza sul destino della gente del luogo. Le sue fotografie non sono semplici copie della realtà, ma esplorazioni di emozioni che invitano a riflettere sulla complessità del mondo e ad apprezzare la resilienza delle persone che lo abitano. Come diceva Robert Capa, «in una guerra si deve odiare qualcuno oppure amare qualcuno: è necessario avere una posizione oppure non si può capire che cosa succede». Abbiamo intervistato l’artista per conoscere meglio il suo lavoro.

Nonostante la sua giovane età, ha sviluppato una fotografia che si distingue per la capacità di catturare l’essenza dell’umanità. Come e quando ha iniziato ad interessarsi alla fotografia e qual è stato il suo percorso formativo?

Ho cercato la fotografia fin da quando ero bambina, anche mia nonna fotografava molto. Penso di aver fatto il mio primo scatto quando avevo più o meno 7 anni, iniziando a immortalare a caso tutto ciò che mi circondava. Poi, probabilmente all’età di 12 o 13 anni, ho ricevuto una macchina fotografica da mio zio. Ho fotografato molto in bianco e nero, soprattutto i miei amici. Potrei dire di aver fatto loro una serie di ritratti di scena. Dopodiché, all’età di 14 anni, ho raccolto un po’ di soldi con cui ho potuto comprare la mia prima fotocamera professionale, e a questo punto ho iniziato ad interessarmi davvero alla fotografia.

Mia madre lavorava per una società di produzione in cui si utilizzava molto la Polaroid. Dopo un po’, anch’io ho acquistato una Polaroid e ho iniziato a usarla molto con la mia famiglia e i miei amici. A 16 anni, quando andavo a scuola ed ero sicura di essere una fotografa, desideravo imparare qualcosa di professionale al riguardo. Di conseguenza, ho iniziato a lavorare come stagista con un fotografo su set cinematografici, poi a teatro e nel settore moda. All’età di 17 anni ho cominciato a studiare fotografia alla Ostkreuzschule für Fotografie. Completati gli studi, a 21 anni, è iniziato il mio lavoro sul circo. Nel corso di due estati in cui ho viaggiato, ho conosciuto il circo in Palestina, Afghanistan e Iran. Così, ho iniziato a lavorare su questo tema nei paesi islamici, viaggiando in 7 paesi diversi per 6 anni.

Le sue opere sono evidenziate da una forte attenzione ai dettagli e alle sfumature emotive, che si traducono in una rappresentazione intensa e penetrante della realtà. Da dove nasce il fascino per quelle realtà spesso poste ai margini della società?

Credo che sia molto importante autografare le voci di persone che non hanno possibilità di essere viste dal mondo. Quindi, provo a farlo io. Probabilmente perché è naif, non lo so, ma penso ancora che sia importante avere almeno un piccolo sguardo che possa essere in grado di cambiare il mondo o aiutare le persone ad attirare l'attenzione sui loro problemi, sulle minoranze, così come sugli altri.

Ha fotografato persone in condizioni di conflitto e crisi umanitarie. Come si prepara mentalmente ad affrontare queste situazioni?

Penso di essere una persona molto curiosa e cerco di essere il più neutrale possibile. Non importa chi incontro, con chi parlo, o chi fotografo, ma credo che parlare con colleghi e amici sia il metodo più efficace, anche quando si vedono cose orribili. Per me la cosa più importante è comunicare con loro, con chi esercita il mio stesso lavoro, perché è in grado di comprendere le mie sensazioni, avendole vissute. Io credo che questo mestiere non sia fatto per tutti, ognuno riesce a sentire fin dall’inizio se è in grado di gestire i conflitti o meno. Ciò non significa che non vada bene se non si è in grado di farlo, proprio perché si tratta di momenti in cui si vedono situazioni molto forti. Alcune volte, quando osservo tutto ciò che mi circonda, anche io mi sento come una spugna che assorbe tutte queste informazioni. Al momento, mi sposto in Ucraina per due o tre mesi, dopodiché rifletto su quello che ho visto e che è stato importante. Raggiungo il Paese in auto e durante il viaggio di ritorno (che mi richiede più o meno due giorni), mentre guido da sola e ascolto musica, penso a ciò che ho visto e così rifletto.

Dalla serie «A grave in the Garden» (2023) di Johanna-Maria Fritz

«Tehran, Iran» (2016), di Johanna-Maria Fritz

Sono rimasta affascinata da una delle sue opere più note: «Like a Bird», realizzata in paesi noti per le loro terribili condizioni di vita (Afghanistan, Daghestan, Gaza, India, Indonesia, Iran, Senegal), di cui è riuscita a rappresentare piccoli e semplici momenti di spensieratezza. Come è nata l’idea di questo progetto?

L’idea di «Like a Bird» mi è venuta nel periodo in cui il mio interesse era rivolto al mondo del circo, in particolare a quello in Palestina, che ho trovato incredibilmente affascinante. Siccome ricevevo unicamente notizie negative dalla maggior parte di quei Paesi, avevo bisogno di mostrare realtà positive, ecco perché ho iniziato questo progetto.

Grazie a questo lavoro è riuscita a rispondere alla sua domanda: «Il circo in un mondo islamico è nato per divertire, ribellarsi o combinare»?

Credo che sia anche una sorta di ribellione. Ad esempio in Afghanistan le ragazze, nonostante sia loro vietato, lavorano con il circo, si nascondono, perché se prima era difficile, ora è completamente impossibile per loro esporsi davanti alla gente. Fare circo quindi è un modo per ribellarsi al regime. Essere obbligati a fare qualcosa in segreto è molto triste.

Come valuta il ruolo della fotografia nel mondo contemporaneo e come pensa che possa essere utilizzata per sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni sociali e politiche?

La fotografia rimane molto importante nel mondo di oggi, un mondo in cui le fake news coprono una fascia decisamente importante. Mi viene in mente Bucha in Ucraina, quando ero lì il primo giorno dopo la liberazione. Mi ricordo di tutti quei corpi sparsi. Conosco persone che non sono interessate al giornalismo o alla fotografia, eppure ancora mi chiedono se la notizia era vera o falsa. «Hai davvero visto tutte queste persone morte?» «Sei sicura che non fossero pupazzi?» Pertanto, credo che la fotografia sia essenziale per comprendere i crimini di guerra e altri eventi orribili attualmente in corso. In altre parole, senza le immagini di Auschwitz o della guerra del Vietnam, non si potrebbe comprendere l’mmensità e la crudeltà degli eventi che sono accaduti. È in questo modo che la fotografia aiuta molto a migliorare la consapevolezza delle cose, a raccogliere aiuti per le persone e a mettere in luce storie positive.

Quali sono i suoi progetti futuri? Ci sono nuovi problemi o soggetti che vorrebbe esplorare attraverso la fotografia?

Recentemente, ho iniziato un nuovo progetto sulla verginità femminile al quale sto attualmente lavorando. Ho lavorato per circa 6/7 anni a «Like a Bird», quindi è probabile che anche questo lavoro richieda lo stesso tempo.

Rischa Paterlini, 22 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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