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04_Francia_Restituzioni_©Musée_du_quai_Branly-Jacques Chirac_photo Roland Halbe

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Forse è meglio lasciare tutto come sta

Forse è meglio lasciare tutto come sta

Francesco Paolo Campione

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Lugano (Svizzera). Per chi ha avuto occasione di visitare più volte, nel corso degli ultimi decenni, i depositi dei musei d’arte africani, verificandone di persona (nella quasi totalità dei casi) l’abbandono, il saccheggio sistematico e la progressiva spoliazione, la proposta di restituire ai Paesi d’origine una parte del patrimonio conservato nei musei etnologici europei potrebbe sembrare una semplice boutade. La battuta demagogica di qualche politico a corto di idee in una Francia infragilita da incertezze identitarie o in un Regno Unito a caccia di consensi postcoloniali al tempo della Brexit. La questione sembra essere invece diventata seria, per cui vale la pena fare almeno due semplici considerazioni.
La prima è che le opere d’arte, non soltanto quelle «etniche», sono innanzitutto indicatori culturali: concrezioni della memoria, comprese lungo una retta ideale che va dai valori remoti (quelli vicini a chi le ha create) ai valori prossimi (quelli vicini agli ultimi in ordine di tempo che ne usufruiscono). Sono il risultato di una perenne trasformazione e risemantizzazione. Arte per metamorfosi, come ha scritto Malraux. I musei sono nati con la missione di proteggere le opere d’arte attraverso le generazioni, anche dalla stessa volubilità del pensiero che ne arricchisce senza sosta i valori. Quella volubilità, talvolta esiziale, che ha generato gli autodafé dei conquistadores e le epurazioni ideologiche dei totalitarismi. La serie dei valori posseduti dalle opere d’arte ha richiesto secoli per essere condivisa; e solo poche culture possiedono oggi questi valori in misura tale da assicurare la conservazione di un bene al di là della volubilità del pensiero. La questione non è dunque nella restituzione, ma nella stratigrafia dei valori e nella volontà sancita dalle leggi, dalle istituzioni, dalla morale e dalle pratiche condivise di conservare la memoria, a prescindere che ci piaccia o meno o, peggio ancora, che sia commerciabile per ricavarne profitto. La seconda è che, come ogni memoria ha bisogno di essere vivificata, così ogni opera d’arte ha bisogno di essere valorizzata. Il che significa avere, oltre che competenze scientifiche e volontà di politica culturale, anche risorse (sempre più rilevanti) per far parlare ciò che altrimenti resterebbe muto. Si tratta di competenze, volontà e risorse che oggi sono appannaggio di pochi Paesi al mondo, fra l’altro quelli più impegnati in un processo di trasformazione sociale in senso multiculturale; per cui quelle stesse opere d’arte, che si vorrebbero restituire in virtù di demagogici principi astratti, potrebbero invece essere concretamente utili per costruire solide piattaforme d’integrazione. Senza contare il fatto che i migliori esempi di valorizzazione delle opere d’arte conservate nei musei etnologici europei sono quelli in cui, con la collaborazione delle autorità e degli esperti dei Paesi da cui le opere provengono, si è riusciti a costruire programmi di cooperazione internazionale che hanno come obiettivo primario proprio il consolidamento dei valori della memoria cui si accennava prima.
Affrontare la questione della restituzione delle opere d’arte come si sta facendo adesso è quindi pretestuoso e superficiale. È una questione che richiederà una maturazione ancora molto lunga. Per il momento, una volta tanto, meglio lasciare le cose come stanno.
 

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Francesco Paolo Campione, 11 gennaio 2019 | © Riproduzione riservata

Forse è meglio lasciare tutto come sta | Francesco Paolo Campione

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