Giuseppe Pietro Bagetti «Notturno con effetto di luna» (1820-1830). Foto: Torino, Musei Reali, Palazzo Reale

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Giuseppe Pietro Bagetti «Notturno con effetto di luna» (1820-1830). Foto: Torino, Musei Reali, Palazzo Reale

Com’è romantica la rivoluzione

Circa 200 opere per la prima mostra dedicata alla declinazione italiana del movimento. Il curatore Fernando Mazzocca la presenta in anteprima

Circa duecento opere, divise tra i suggestivi spazi delle Gallerie d’Italia e il vicino Museo Poldi Pezzoli, compongono la prima mostra mai dedicata a Romanticismo italiano, restituito nella sua identità rispetto a quanto si è manifestato nel resto d’Europa. Le due date convenzionali entro cui viene di solito circoscritto questo movimento sono il 1815, anno del Congresso di Vienna, e il 1848, quando i moti rivoluzionari scoppiati in molte città del vecchio continente, in Italia a Milano, Venezia e Roma, hanno svelato definitivamente le illusioni della Restaurazione.

Non si potevano riportare indietro le lancette della storia, alla situazione precedente alla Rivoluzione francese e agli sconvolgimenti napoleonici. Il mondo, la società erano irrimediabilmente cambiati. Il Romanticismo, manifestatosi in maniera diversa nei differenti Paesi, è stato interprete di questi mutamenti, attraverso un nuovo modo di sentire e rappresentare la realtà. Una svolta epocale che ha sconvolto il mondo occidentale, coinvolgendo anche la Russia e le Americhe. Nell’Italia politicamente divisa la cosiddetta rivoluzione romantica ha avuto un’affermazione controversa, dovendosi confrontare con la tenace resistenza della tradizione classicista, del gusto dell’antico, così radicati nella nostra storia.

Dal 26 ottobre al 17 marzo la mostra racconta, attraverso le opere, come ci siamo liberati da questi vincoli per entrare nel mondo contemporaneo e confrontarsi con la modernità, alla ricerca di un’identità nuova. Milano e la Lombardia sono state identificate come il grande laboratorio, l’officina del Romanticismo italiano, sia per quanto riguarda la letteratura (basti l’esempio di Manzoni) e la musica (l’affermazione scaligera di Rossini, Bellini, Donizetti e del giovane Verdi), che le arti visive. Se non la nascita di una vera e propria Rivoluzione industriale, almeno profonde trasformazioni tecnologiche e sociali hanno creato le circostanze favorevoli a un’arte che ha fatto dell’espressione individuale, della libertà creativa, del superamento delle vecchie convenzioni la sua prerogativa. Milano, grazie alla comparsa di consumi culturali prima inesistenti che hanno creato un’offerta competitiva, ha avuto una grande forza di attrazione su letterati, musicisti e appunto artisti non solo locali, ma provenienti da ogni parte d’Italia.

Personaggi intraprendenti come il veneto Hayez, il torinese d’Azeglio, il milanese  Molteni, il bellunese Caffi, il ticinese Vela, i milanesi Domenico e Gerolamo Induno, il fiorentino Bartolini, e tanti altri documentati in mostra, sono stati attirati dalle opportunità loro offerte dalla città più europea d’Italia. Milano, prima di diventare la capitale «morale» come avverrà dopo l’Unità trainando lo sviluppo della nuova nazione, era diventata la capitale culturale, togliendo il primato alle tradizionali città d’arte, ormai decadute, come Venezia, Firenze e Roma. In campo figurativo la rivoluzione romantica ha significato una radicale messa in discussione della gerarchia dei generi, per cui quelli tradizionalmente considerati minori, come il paesaggio, il ritratto, la rappresentazione della vita del popolo hanno assunto  la stessa importanza della pittura storica e di quella sacra per secoli collocate al vertice. Un moderno sistema delle arti, articolato tra un vivace mercato e il nuovo collezionismo, ha avuto nelle esposizioni la sua espressione. Un’arte, in particolare la pittura, che si è fatta interprete della vita, rappresentando i luoghi, le persone, le vicende della storia moderna invece di quelle dell’antichità e della mitologia, ha appassionato il pubblico e la critica.

Proprio per rendere questa straordinaria vivacità creativa la mostra è stata suddivisa in una serie di sezioni tematiche, dodici alle Gallerie d’Italie e cinque al Poldi Pezzoli, dedicate alle diverse declinazioni in cui si sono manifestati i generi stessi, a seconda appunto dell’indole e della personalità degli artisti. A trionfare, grazie a una concezione dell’arte che rifiuta le regole, è stata l’individualità. Anche se è esistita una sensibilità comune che ha portato a trattare temi simili, i linguaggi sono profondamente diversi. Lo dimostrano molto bene le opere in mostra, a partire dalla pittura di paesaggio, il genere che ha conosciuto i mutamenti più radicali diventando anche quello più richiesto. In questo campo Torino e Napoli se la sono giocata con Milano, diventando i laboratori forse più avanzati di questa nuova sensibilità nei confronti della natura.

I grandi paesaggisti torinesi, come Bagetti, De Gubernatis e Reviglio, sono stati i primi a scoprire la bellezza sublime delle Alpi. I napoletani riuniti intorno alla Scuola di Posillipo, dal luogo incantato dove si sono ritrovati a indagare dal vero la natura, hanno rilanciato il fascino del Grand Tour, attirando nella loro orbita i viaggiatori e i vedutisti stranieri, come Turner e Corot. Le loro opere messe a confronto dimostrano come l’arte italiana sia riuscita a dialogare con quella europea.

Giuseppe Pietro Bagetti «Notturno con effetto di luna» (1820-1830). Foto: Torino, Musei Reali, Palazzo Reale

Fernando Mazzocca, 25 ottobre 2018 | © Riproduzione riservata

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