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«Fanciulla sulla roccia a Sorrento» (1871), di Filippo Palizzi. Collezione Fondazione internazionale Premio E. Balzan. Foto: Mauro Ranzani, Milano

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«Fanciulla sulla roccia a Sorrento» (1871), di Filippo Palizzi. Collezione Fondazione internazionale Premio E. Balzan. Foto: Mauro Ranzani, Milano

Bellenger: «L’Ottocento napoletano è il miglior Ottocento italiano»

L’ex direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte porta alle Scuderie del Quirinale 250 opere che traducono in immagini il fascino del mondo partenopeo

Guglielmo Gigliotti

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«Napoli Ottocento» è una mostra di 250 opere che, nei due piani delle Scuderie del Quirinale, dal 27 marzo al 16 giugno, e per la cura di Sylvain Bellenger, racconta una tra le stagioni più ricche della moderna cultura europea. In mostra, i protagonisti diretti e indiretti di questa congiuntura irripetibile di arte, scienza e società: Edgar Degas, William Turner, Vincenzo Gemito, Antonio Mancini, Anton Van Pitloo e la Scuola di Posillipo, Giuseppe De Nittis e la Scuola di Resina, Filippo Palizzi e i suoi tre fratelli, e poi Domenico Morelli, Francesco Paolo Michetti, John Singer Sargent, Achille D’Orsi e numerosi altri artisti e artigiani che tradussero in immagini e oggetti il fascino del mondo partenopeo.

«È il mio omaggio a Napoli, e anche il mio grazie», dice Bellenger. Lo studioso francese è stato infatti, dopo vari incarichi museali in Francia e in America, a capo del Museo e Real Bosco di Capodimonte dal 2015 al 2023. «Fu a Napoli nel 1980, davanti alla “Crocifissione” di Masaccio, proprio a Capodimonte, che decisi, venticinquenne, di abbandonare la carriera di filosofo e di dedicare tutta la vita alla storia dell’arte».
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E ora la grande mostra.
È un viaggio nello spazio e nel tempo, è un tuffo in un altro mondo. L’Ottocento napoletano è il miglior Ottocento italiano. Fu tanto vitale che non subì contraccolpi dall’Unità d’Italia, che però segnò per Napoli una caduta economica e politica, ma non nell’arte, che si rigenerò proprio per la crisi. La mostra svolge anche questo ruolo: l’Ottocento soffre di pregiudizi negativi, influenzati non da ignoranza, ma da “sconoscenza”: la mostra vuole anche fugare questa errata impressione.

Il titolo della principale sezione della mostra è «Dal Sublime alla Materia»: Napoli è capitale degli estremi che si toccano?
Napoli è città di vitali contraddizioni. C’è, per iniziare, il sublime, inteso come sentimento di stupefatto terrore a cospetto degli spettacoli grandiosi della natura, perché a Napoli c’è il Vesuvio, assurto a simbolo urbano, un contrassegno dell’identità di una città e di un popolo che convivono da millenni con un immenso memento mori. Nell’Ottocento è stato dipinto nelle sue fasi incandescenti da numerosi artisti italiani e stranieri, come documentato in apertura di mostra, dove ho voluto dare la sensazione di entrare in questa dimensione abnorme, mediante installazioni luminose, ma anche con la presentazione di pietre vulcaniche. Esse provengono dal Real Museo Mineralogico, fondato da Ferdinando IV nel 1801, il primo del suo genere nel mondo.

Quindi Napoli è anche scienza?
Certamente, e un’intera sezione, con apparati immersivi, ricostruisce l’aspetto e l’atmosfera della Stazione Zoologica di Napoli e relativo Acquario, fondati da Anton Dohrn negli anni ’70 dell’Ottocento. Dohrn fece decorare una sala dell’istituto da Hans von Marées e Adolf von Hildebrand, e vi istituì una sala di musica. Di nuovo la fusione di arte e scienza, ma anche mito: Dohrn giunse a Napoli spinto dal filoellenismo tedesco, che vedeva nella città del golfo l’ultimo segno di un’Arcadia perduta. Ecco, la mostra sfata la leggenda di una città dominata dall’irrazionale, perché fu polo anche opposto.

Il Verismo napoletano, ad esempio, illustra una realtà abitata da spiritualità, perché nel Verismo, che cerca la verità, c’è una componente morale e filosofica. Allo stesso modo, tanti soggetti religiosi in mostra, manifestano elementi di cruda realtà. In una sala ho messo a confronto soggetti di animali di Filippo Palizzi con splendidi animali di antichi presepi: il presepe rappresenta proprio una scena sacra, ma piena di verità. E questa ricerca di verità arriva fino all’ultima stagione di Antonio Mancini, caratterizzata da denso materismo. Lì è la materia il vero soggetto. Ecco perché ho voluto in mostra opere di Medardo Rosso, Fontana, Burri e Salvatore Emblema, dove esplode la materia-soggetto. Sono artisti in cui vibra l’eredità dell’Ottocento napoletano.
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La mostra illustra un Degas napoletano…
Lo sa che Paul Valéry diceva che Degas parlava napoletano? A Napoli venne molte volte, dall’infanzia alla vecchiaia. Suo nonno arrivò a Napoli fuggendo dalla Rivoluzione francese, tutti i suoi figli nacquero a Napoli, tra cui il padre di Degas. Non si può spiegare l’arte di Degas senza questo tassello napoletano, che lui assorbì in modo più subliminale che cosciente. In mostra abbiamo, tra l’altro, il ritratto dell’amata sorella Thérèse, dove nello sfondo figura il panorama che si scorge dal grande palazzo napoletano del nonno.

Che la mostra su Napoli si svolga a Roma ha un significato particolare?
Assolutamente sì. Con la mostra ho voluto dimostrare che il gran secolo napoletano non è solo il Settecento, ma anche e soprattutto l’Ottocento, anche se è un Ottocento che trae radici dalle scoperte di Pompei ed Ercolano a metà Settecento. Di qui anche la grande sezione in mostra di arte applicata neopompeiana e neogreca. Ma ho voluto dimostrare anche che l’Unità d’Italia non sancì la fine della forza culturale di Napoli, che fu grande anche sotto i Savoia. Dove dirlo, se non a Roma, nella capitale, davanti al Quirinale che fu sede dei Savoia?

Alla curatela della mostra hanno collaborato Jean-Loup Champion, Carmine Romano e Isabella Valente.

Guglielmo Gigliotti, 26 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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