«Immolation» (1972) di Judy Chicago. © Judy Chicago/Artists Rights Society (ARS), New York. Cortesia dell’artista

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«Immolation» (1972) di Judy Chicago. © Judy Chicago/Artists Rights Society (ARS), New York. Cortesia dell’artista

Al New Museum un’ampia «introspettiva» di Judy Chicago

L’allestimento newyorkese dell’artista e attivista femminista include il suo «museo personale»: opere, documenti e oggetti di 90 donne dal Medioevo ad oggi. Ce lo illustra Massimiliano Gioni

Dal 12 ottobre al 14 gennaio il New Museum dedica all’artista e attivista femminista americana Judy Chicago (classe 1939) un’ampia retrospettiva dal titolo «Her-Story». Lavori chiave di Chicago dialogano con opere di altre artiste realizzate nell’arco dei secoli, in una mostra nella mostra o museo personale intitolato «The City of Ladies», che il curatore e direttore artistico Massimiliano Gioni ci illustra.

Nel comunicato stampa la mostra è definita una «introspettiva» e promette un modello curatoriale «poroso, ospitale, aperto». Che cosa significa? Perché questa mostra si differenzia da una normale retrospettiva?

A dire il vero, l’idea della «introspettiva» è un po’ un mio cavallo di battaglia, per così dire: è un termine che uso sempre quando invito gli artisti a organizzare una mostra al New Museum o con la Fondazione Trussardi di Milano. L’ho preso in prestito da Richard Hamilton che aveva così intitolato una sua mostra, ma in particolare ciò che intendo per «introspettiva» è una mostra in cui il contenuto della mostra e la sua coreografia si sovrappongono, si influenzano e si amplificano a vicenda, cosicché l’esperienza della mostra diventi in qualche modo l’estensione dell’opera dell’artista. L’idea, insomma, è quella di creare una mostra che sia un po’ come entrare nella mente o nel mondo dell’artista.

A Milano, con la Fondazione Trussardi, l’effetto si ottiene soprattutto attraverso la scelta dell’artista e del luogo in cui esporre, creando un cortocircuito tra opera e luogo, e pensando alla mostra proprio come uno spazio chiuso, «mentale», quasi un sogno (ad esempio, la recente personale di Diego Marcon). Al New Museum di New York questo approccio è risultato in alcune «installazioni totali» (come quelle di Pipilotti Rist, Carsten Höller o Chris Ofili), in cui l’artista trasformava lo spazio e il museo in una coreografia immersiva, ma è anche stato declinato in una direzione diversa, da artisti come Theaster Gates, Jim Shaw o Rosemarie Trockel e in maniera forse più radicale da Judy Chicago, appunto. In questi casi, la «introspettiva» è una mostra in cui l’artista mette in scena il proprio lavoro, ma anche il suo universo creativo (la sua «enciclopedia» forse) o le sue fonti: un altro modo in cui chiamiamo questo tipo di mostre è «museo personale». E così invitiamo l’artista non solo a esporre la propria opera ma anche a mostrarci le opere di altri artisti che lo hanno influenzato o i materiali che ha raccolto e lo hanno ispirato...


Una mostra corale dunque, pur trattandosi della personale di un singolo artista.

È una forma di mostra personale più ospitale e polifonica. Naturalmente richiede un tipo di artista che sia in un certo senso generoso e felice di condividere non solo il suo lavoro ma anche il suo mondo. E trovo che spesso si tratti di artisti che sentono anche una responsabilità etica nei confronti di altre figure (e sia chiaro, non ne sto facendo una questione di giudizi morali: non è un obbligo fare questo tipo di mostre). Theaster Gates ha aperto le porte della sua mostra ad amici e figure di artisti neri che ammirava, ma anche incluso oggetti appartenuti a suo padre e a un collega tristemente scomparso troppo giovane. Jim Shaw ha incluso centinaia di documenti di strani artisti outsider ed eccentrici e gruppi religiosi e altre forme di cultura americana visionaria e paranoica. Trockel ha costruito una sorta di microcosmo delle sue fascinazioni.

Chicago è andata più in là, creando questa «City of Ladies» che è una sorta di museo nel museo, con opere d’arte, documenti, oggetti e reliquie di 90 donne dal Medioevo ad oggi: tutti lavori che raccontano le influenze e i precedenti che hanno dato forma alla sua ricerca, ma che costituiscono anche una sorta di canone artistico alternativo. Chicago, d’altra parte, è sempre stata più di un’artista: è stata una pedagoga, una studiosa, un’attivista e organizzatrice e ha dedicato la sua intera carriera alla riscoperta e alla preservazione della storia dell’arte delle donne. Una sua mostra, quindi, non poteva essere solo un display di sue opere ma doveva ospitare le voci di decine di altre donne venute prima di lei. Come lei stessa dice: «
Se inviti Judy Chicago, inviti altre donne e la storia delle donne».

Com’è strutturata la mostra?

Al secondo, terzo e settimo piano si sviluppa una retrospettiva completa, se vogliamo «tradizionale», con opere di Chicago dagli anni ’60 ad oggi. Al quarto piano (che è il piano più spettacolare del New Museum: il grande cubo di oltre otto metri di altezza) la mostra diventa più inusuale e complessa. Entro un’installazione disegnata da Chicago, che include un bellissimo tappeto, i giganteschi ricami della serie «Female Divine», disegni e sculture, trovano posto opere d’arte e documenti di circa 90 figure della storia dell’arte e della cultura dal Medioevo fino agli anni ’50 (cioè fino al periodo in cui poi Chicago ha iniziato a lavorare come artista).

Abbiamo avuto la fortuna di portare ed esporre assieme una serie straordinaria di capolavori, tanto che ancora quasi non ci credo: l’unico codice illustrato medievale della celebre mistica tedesca Ildegarda di Bingen (e la cui unica copia si trova in Italia), uno straordinario dipinto di Artemisia Gentileschi dagli Uffizi e poi, per citare a caso: Frida Kahlo, Leonora Carrington, Remedios Varo, Virginia Woolf, Anaïs Nin, Suzanne Duchamp, Hilma af Klint, Sonia Delaunay e Sophie Taeuber-Arp, Meret Oppenheim, Romaine Brooks..., oltre a oggetti in apparenza di scarso valore economico ma che Chicago ha riscoperto e valorizzato, come vecchie tecniche di cucito e ricamo, grandi coperte ricamate da artiste afroamericane in schiavitù, vasi di ceramica dell’Ottocento, terrecotte indigene e così via. È appunto un museo personale o una piccola enciclopedia che mette in scena le influenze e le ispirazioni di Chicago ma che, molto più semplicemente e in modo radicale, si chiede: «What if Women Ruled the World?» (E se le donne governassero il mondo?), come recita uno dei grandi ricami di «Female Divine».


Chicago è nota soprattutto per i suoi lavori di stampo femminista degli anni Settanta e Ottanta. In anni recenti la sua critica femminista si intreccia a riflessioni su ambiente, ecologia e sul destino del pianeta. Penso in particolare alla serie «The End: A Meditation on Death and Extinction». Può parlarci di questa nuova direzione nella pratica dell’artista?

Come Chicago ha detto più volte, se uno decide davvero di abbracciare un credo femminista, deve ripensare completamente le relazioni non solo tra uomini e donne ma anche tra umani e altre creature. Rifiutare il paradigma patriarcale significa rimettere in discussione tutte le nostre relazioni, quelle tra esseri umani e quelle tra esseri umani e l’universo. È insomma il fondamento per una nuova coscienza eco-femminista che informa molte delle opere di Judy Chicago degli ultimi anni.

A ben vedere, in realtà, è un percorso iniziato già negli anni Sessanta quando, con le sue performance della serie «Atmospheres» disseminava fumogeni e giochi pirotecnici nelle strade e nei deserti della California, immaginando una versione della Land art che era effimera e diffusa («atmosferica», appunto) e non destinata a ferire la terra o a lasciare tracce nel paesaggio. Se pensiamo a Michael Heizer o Robert Smithson, i loro interventi di Land art attaccavano la terra e la natura con bulldozer e dinamite. Chicago invece immaginava una Land art che non lasciasse tracce e che agisse in collaborazione con l’ambiente
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La mostra presenterà lavori inediti?

Innanzitutto c’è da considerare che quando si lavora con un’artista come Chicago, che è al contempo una maestra indiscussa e una figura a lungo marginalizzata, ci si trova in una situazione piuttosto curiosa: ovvero che molti dei lavori storici sono inediti o comunque poco visti. Gran parte dei lavori degli anni Sessanta, della sua fase minimalista (e non dimentichiamoci che Chicago era inclusa, insieme ai vari Smithson, Bob Morris, Donald Judd ecc., in «Primary Structures», la mostra che nel 1966 consacrò il Minimalismo), sono pochissimo conosciuti e di rado visti dal vivo. E lo stesso vale per tantissime altre opere degli anni Settanta.

A New York Chicago è nota soprattutto per «The Dinner Party», installato come opera permanente al Brooklyn Museum, ma gran parte del suo lavoro è tuttora ignoto ai più. E poi sì, ci sono altre opere recenti e inedite tra cui anche un lavoro partecipativo che invita il pubblico a rispondere alla domanda menzionata poco sopra: «What if Women Ruled the World?»
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«Immolation» (1972) di Judy Chicago. © Judy Chicago/Artists Rights Society (ARS), New York. Cortesia dell’artista

Federico Florian, 10 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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