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Accademia Futura: non solo studenti, ma futuri

L’educazione superiore (università, accademie, istituti di alta formazione) non è un settore accessorio, ma un’infrastruttura critica della società. Ne parla Francesco Monico, direttore fondatore Scuola di Nuove tecnologie per l’arte Naba e Accademia Costume e Moda

Francesco Monico

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In un’epoca segnata dalla transizione accelerata verso modelli economici e sociali che saranno sempre più trasformati nel XXI secolo, l’educazione superiore (università, accademie, istituti di alta formazione) non è un settore accessorio, ma un’infrastruttura critica della società. Le istituzioni formative dal primo al terzo livello rappresentano oggi dei veri e propri nodi nevralgici all’interno del tessuto urbano, economico e culturale delle città europee, in particolare nel passaggio da una società tecnologica fondata sulla conoscenza automatizzata, sul nomadismo culturale e sull’economia delle conoscenze.

Università e accademie: aziende spurie fondate su un patto formativo

Sarebbe riduttivo, e per certi versi fuorviante, definire le università e le accademie come semplici aziende. Certo, sotto il profilo amministrativo e gestionale, molte di queste istituzioni adottano strumenti del mondo aziendale: operano secondo logiche di bilancio, monitorano la performance attraverso indicatori quantitativi, costruiscono piani strategici pluriennali, e perseguono obiettivi di posizionamento competitivo sul mercato globale dell’istruzione attraverso un controllo di gestione finanziaria. Tuttavia, tale somiglianza strutturale non deve farci perdere di vista la loro natura profonda, che resta radicalmente distinta da quella di un’impresa tout-court. Università e accademie non sono aziende in senso stretto, bensì organismi complessi, spuri e multiformi, fondati su un patto formativo più che su un contratto commerciale. Questo patto implica un impegno reciproco non solo tra docenti e studenti, ma tra l’intera comunità accademica e la società, in termini di produzione di conoscenza, cura e disseminazione della cultura, formazione critica dei cittadini e sviluppo del pensiero. 

Quindi, a differenza delle imprese, che perseguono fini principalmente economici e operano secondo criteri di efficienza, competitività e profitto, le istituzioni educative si fondano su una logica relazionale, generativa e trasformativa. In questo senso, mentre l’azienda misura il proprio successo in termini di rendimento finanziario e quota di mercato, l’istituzione formativa valuta il proprio operato sulla base della qualità e profondità delle relazioni che instaura, della capacità di sviluppare pensiero critico e creativo, e dell’impatto culturale e sociale che produce nel tempo. L’obiettivo non è vendere meramente un prodotto, ma accompagnare processi di crescita, apprendimento, scoperta ed emancipazione, assumendosi una responsabilità etica verso il futuro delle persone e della comunità. Al loro interno convivono comunità miste e plurali, composte da figure diverse per ruolo, status e funzione: amministrativi, studenti, docenti strutturati, incardinati e a contratto, ricercatori, tutor, visiting fellows, alumni, ma anche partner culturali, istituzionali e industriali. Questa pluralità rende l’università e l’accademia un ecosistema in cui si intrecciano esigenze organizzative, istanze pedagogiche, tensioni etiche, vocazioni culturali e dinamiche politiche. Non si tratta dunque di un’organizzazione chiusa e verticale, ma di un sistema poroso, diremmo «fuzzy», interdipendente e reticolare, che vive in relazione costante con il territorio, le reti internazionali, le comunità professionali e i cambiamenti della società. In ecologia si direbbe un ecotono: uno spazio di confine vitale, in cui due ambienti diversi si incontrano e, nell’incontro, generano una biodiversità più ricca di quella che li compone singolarmente. L’istituto di alta formazione è questo ecotono: il luogo in cui il giovane viene introdotto nel mondo del lavoro e, al contempo, dove il docente, attraverso l’attività didattica, produce ricerca che nutre la società e l’industria, qualunque esse siano. In questa zona di transizione e scambio, si intrecciano linguaggi, pratiche e saperi, creando nuove forme di conoscenza e di competenza che nessuno dei due mondi, accademico e produttivo, potrebbe generare da solo. 

Proprio per questa complessità costitutiva, tali istituzioni si trovano costantemente in tensione tra forze divergenti: tra l’autonomia accademica e la regolazione pubblica, tra la fedeltà alla propria tradizione umanistica e la pressione verso l’innovazione tecnologica, tra la libertà di ricerca e le logiche di «accountability», impatto e misurabilità sociale. Questa tensione ecotonale non è una anomalia da correggere, ma è una caratteristica strutturale del sistema dell’alta formazione contemporanea, che impone una governance capace di mediazione intelligente, visione sistemica e adattabilità culturale. In questo contesto, pensare all’Istituto di alta formazione come a una semplice azienda equivale a impoverirne il mandato storico, disconoscendone la funzione generativa, critica, simbolica e adattiva. Occorre invece riconoscere il sistema per ciò che è: una forma istituzionale sui generis, capace di tenere insieme economia e cultura, impatto e libertà, comunità e struttura, in grado di produrre non solo competenze, ma conoscenze, significati, immaginari e cittadinanza. 

Come scrive Gareth Morgan in Images of Organization, una pietra miliare della teoria organizzativa contemporanea: «Le metafore non sono semplici ornamenti del discorso organizzativo, ma potenti lenti mentali: ci costringono a vedere in modo differente, spingendo i nostri punti di forza a emergere e rivelando, allo stesso tempo, i nostri limiti intrinseci». Un’affermazione che va ben oltre l’ambito manageriale: ci invita a concepire le istituzioni culturali come costruzioni simboliche e dinamiche, la cui efficacia dipende dalla loro plasticità culturale ed economica, ovvero dalla capacità di adattarsi, trasformarsi e rigenerarsi in rapporto ai contesti, senza smarrire la propria vocazione pubblica e critica.

Modelli di governance, finanziamento e gestione: Europa, Usa, Italia a confronto

Il panorama globale dell’educazione superiore è estremamente eterogeneo, e riflette differenze profonde nei modelli di governance, nelle fonti di finanziamento («revenues») e nei criteri di gestione interna. Comprendere queste differenze è fondamentale per valutare le potenzialità e le criticità del sistema italiano nel contesto internazionale.

Negli Stati Uniti le università come imprese culturali e finanziarie operano secondo un modello fortemente orientato al mercato. I grandi atenei (Harvard, Stanford, Princeton, Mit, tra gli altri) funzionano come vere e proprie «corporation» educative: possiedono patrimoni immobiliari, fondi di investimento («endowment»), spin-off industriali, media propri, brand riconosciuti a livello globale. Il finanziamento proviene principalmente da quattro canali: tasse di iscrizione («tuition fees»), spesso molto elevate; donazioni private e fondazioni filantropiche; contratti di ricerca con imprese e istituzioni; redditi da investimenti patrimoniali. Questo modello ha prodotto eccellenze ma anche squilibri: ha incentivato l’innovazione, ma al prezzo di un accesso fortemente diseguale e di una pressione crescente sugli studenti indebitati.

In Europa, i modelli di gestione dell’educazione superiore oscillano tra due poli principali: da un lato il controllo pubblico, dall’altro la liberalizzazione del settore secondo logiche di mercato con la certificazione affidata ad agenzie compartecipate dai vari istituti (college). Tuttavia, ciò che caratterizza il panorama europeo è la ricchezza delle forme ibride, che hanno saputo conciliare l’universalismo dell’accesso con l’efficienza gestionale, l’autonomia con la responsabilità pubblica. Paesi quali la Germania, la Francia e l’Italia rappresentano esempi consolidati di modello statale centralizzato, dove l’alta formazione è considerata un diritto costituzionale e un pilastro della coesione nazionale. In questi contesti, lo Stato mantiene un ruolo attivo nella pianificazione, nel finanziamento e nella regolazione dell’intero sistema, assicurando standard elevati di qualità, accessibilità economica e controllo democratico delle istituzioni. Tuttavia, anche all’interno di questi sistemi tradizionalmente pubblici si è assistito a una crescente apertura verso forme di valutazione esterna, autonomia organizzativa e collaborazione con il settore privato. In Italia è stato implementato il ruolo dell’Anvur, Agenzia Nazionale per la Valutazione Università e Ricerca, e del Cimea, il Centro ufficiale italiano della rete europea Enic/Naric, con il compito di supportare la mobilità internazionale e favorire una migliore comprensione tra i sistemi formativi italiani e stranieri. Il riconoscimento è infatti l’unità di valuta della globalizzazione ovvero della nuova infrastruttura globale della formazione.

Se il caso citato ha modelli di gestione altamente statalizzati diverso, ma altrettanto efficace, è l’approccio adottato da paesi come l’Olanda, la Danimarca, la Svezia e la Finlandia, dove le università godono di ampi margini di autonomia, operano con modelli manageriali flessibili e sono spesso organizzate come fondazioni o enti semiautonomi. Tuttavia, questa autonomia non si traduce in deregolamentazione, bensì si innesta all’interno di un solido sistema di welfare formativo, che garantisce equità nell’accesso, finanziamenti stabili e integrazione con le politiche sociali e territoriali. Il risultato è una governance multilivello, capace di far convivere libertà operativa e coerenza con gli obiettivi di interesse pubblico.

L’Italia, in questo panorama, occupa una posizione intermedia e spesso ambigua. Il sistema universitario italiano è storicamente pubblico, ancorato a una visione statalista dell’istruzione, sotto presidio Mur-Anvur e Cnam, per il sistema Afam (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica), ma negli ultimi decenni ha attraversato trasformazioni profonde, legate a politiche di razionalizzazione della spesa pubblica, processi di esternalizzazione dei servizi, e, in alcune realtà, forme di privatizzazione, specialmente nella gestione delle attività accessorie (housing, servizi didattici, formazione extracurriculare, spin-off, sede decentrate a livello nazionale e internazionale). Anche il sistema universitario ha seguito lo sviluppo generale della infrastruttura globale per cui si sono perfezionate, in Italia Bocconi, Luiss e Cattolica, università private del tutto espressione di un modello di liberismo economico, ma finanziate per cifre anche ingenti dallo stato italiano.

L’Italia quindi si trova in una posizione intermedia e spesso ambigua. Le università e gli istituti Afam sono formalmente pubblici, ma la loro autonomia è compressa da una burocrazia ministeriale normativa e da meccanismi di finanziamento parzialmente rigidi. Le principali fonti di entrata sono: Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) statale; rette studentesche (tra le più basse in Europa); fondi europei e regionali su bandi competitivi; progetti conto terzi e collaborazioni con aziende.

La governance è in mano a organi eletti (senati accademici, consigli di amministrazione), ma la cultura organizzativa resta spesso accentrata e poco propensa alla sperimentazione gestionale. Alcune università virtuose, in particolare quelle più giovani o radicate in territori dinamici, hanno però introdotto modelli più flessibili: collaborazioni strategiche con enti culturali, fondazioni miste, consorzi tra pubblico e privato per la gestione di dottorati, incubatori, corsi internazionali.

Nel settore Afam, le Accademie di belle arti e i Conservatori, nati sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, hanno avviato processi di riforma, ma scontano ancora un riconoscimento giuridico ed economico non pienamente allineato al sistema universitario. Nel percorso di equiparazione, la Corte dei Conti ha più volte sottolineato la necessità di disporre di un track formativo dei corpi accademici chiaro e certificato, condizione ritenuta indispensabile per autorizzare l’esborso di risorse pari a quelle destinate ai docenti universitari. Ad oggi, tale tracciamento non è sempre presente e questo contribuisce a un divario salariale significativo: un professore accademico guadagna mediamente meno di un terzo rispetto a un professore universitario. Proprio questo divario genera ulteriori limiti: ad esempio, la nuova ricerca dottorale delle Afam dovrebbe essere compresa nel compenso ordinario del professore accademico, ma, essendo tale compenso così basso, molte eccellenze dell’Accademia non possono offrire il loro contributo alla ricerca dottorale, a causa di una condizione economica incompatibile con l’impegno richiesto. Tuttavia, sono spesso luoghi di grande innovazione curricolare e pedagogica, in particolare nelle nuove Contemporary Humanities.

Al di là del mandato formativo

Oltre alla loro missione educativa e culturale, gli istituti di alta formazione producono un impatto territoriale diretto e significativo, spesso non registrato o sottovalutato nelle analisi di policy. Le università, le accademie e gli istituti Afam generano infatti un’economia viva di prossimità: il sostentamento quotidiano dei corpi studenteschi e docenti attiva filiere locali di ristorazione, alloggio, trasporti, svago e servizi. In molti contesti urbani, specie nei centri storici o nei quartieri in trasformazione, la presenza di una scuola superiore di eccellenza rappresenta un fattore di rigenerazione urbana e può diventare un motore potente di gentrificazione dolce, capace di riqualificare interi comparti urbani.

Così la ricaduta più strutturale è quella sul mercato immobiliare: l’insediamento di un’istituzione formativa prestigiosa innesca spesso una rivalutazione significativa degli immobili circostanti. Questo ha portato, in particolare nel caso delle istituzioni private, alla nascita di veri e propri «side-business» immobiliari, dove l’attività formativa si intreccia con operazioni di sviluppo e gestione patrimoniale. Non sono rari i casi (anche in Italia) in cui le aziende dell’alta formazione traggono una parte rilevante dei loro ricavi da operazioni immobiliari (affitti, housing per studenti, acquisizioni e valorizzazioni di beni immobili), talvolta persino più redditizie della didattica stessa. Si tratta di una dinamica ambivalente: da un lato può generare sostenibilità economica e reinvestimento, dall’altro rischia di subordinare la missione educativa a logiche speculative, trasformando le città in campus diffusi ma economicamente escludenti.

In questo senso, la presenza di un istituto di alta formazione non è mai neutra: è un agente territoriale attivo, capace di riconfigurare l’identità, l’economia e la geografia sociale di un quartiere, una città, una regione.

All’interno di questo quadro, quindi è significativo il caso degli istituti Afam, e in particolare delle Accademie di belle arti, che, pur essendo formalmente pubbliche, si sono ritagliati spazi significativi di sperimentazione pedagogica, internazionalizzazione e innovazione gestionale. Queste istituzioni, tradizionalmente escluse dai grandi flussi di finanziamento universitario, hanno sviluppato modelli didattici e organizzativi agili, fortemente orientati alla qualità dell’esperienza formativa e alla costruzione di reti internazionali. In tal senso, hanno rappresentato e rappresentano dei laboratori istituzionali d’avanguardia, dove le humanities contemporanee si confrontano con le sfide della globalizzazione educativa e culturale.

Nell’insieme gli Istituti di alta formazione italiani medio-piccoli, specialmente quelli con forte radicamento territoriale, svolgono oggi un ruolo strategico di presidio culturale, infrastrutturazione sociale e leva per lo sviluppo locale. In molti contesti urbani e semiurbani, essi rappresentano motori di innovazione diffusa, attivando processi di rigenerazione urbana, microimprenditorialità, formazione avanzata, ricerca applicata e inclusione sociale. Il loro impatto non si limita alla sfera educativa: essi generano valore economico, simbolico e relazionale, funzionando come veri e propri hub civici in grado di connettere istituzioni, imprese, comunità locali e reti internazionali.

Oggi si può quindi parlare di Accademie come autentiche infrastrutture urbane: nodi vitali che, con la loro presenza e il loro funzionamento, ridisegnano la morfologia sociale, culturale ed economica delle città, influenzandone flussi, identità e prospettive di sviluppo. I campus contemporanei non sono più soltanto luoghi di trasmissione del sapere, ma veri e propri microcosmi produttivi e relazionali, capaci di generare connessioni interdisciplinari, attivare economie di prossimità e alimentare ecosistemi dell’innovazione. In questa nuova configurazione, l’educazione superiore non è più solo un servizio pubblico, ma una risorsa strategica per lo sviluppo sostenibile, per la competitività territoriale e per la costruzione di un nuovo modello di cittadinanza ed economia culturale.

Il ruolo centrale delle «soft skills» nel XXI secolo

L’automazione delle informazioni sta automatizzando con rapidità crescente le competenze cosiddette hard: dalla traduzione all’elaborazione dati, dalla scrittura tecnica alla programmazione. In questo scenario, le istituzioni educative non possono più limitarsi a trasmettere nozioni tecniche: devono formare capacità complesse, trasversali, creative. Le cosiddette «soft skills» (pensiero critico, immaginazione, empatia, capacità di lavoro collaborativo, senso estetico, gestione dell’incertezza) non sono più «abilità secondarie», ma i veri strumenti di cittadinanza attiva nel XXI secolo.

È qui che l’arte, la filosofia, il design, la pedagogia e la riflessione culturale assumono un ruolo strategico. Non per «abbellire» percorsi più tecnici, ma per fondare una nuova alleanza tra sapere e trasformazione sociale. Le arti e le humanities, in particolare, sono una forma radicale di pensiero speculativo, un laboratorio esperienziale di senso, una tecnologia dell’immaginazione.

In questa prospettiva, l’attivazione dei dottorati di ricerca nelle istituzioni Afam (Terzo livello di studi), a partire dal 2024, rappresenta una svolta strategica per l’intero sistema dell’istruzione superiore italiana. Non si tratta soltanto di un adeguamento formale agli standard europei, ma di un’opportunità concreta per generare ricerca avanzata nelle arti, con ricadute significative sul piano culturale, economico e industriale dei territori. I dottorati Afam non solo legittimano l’arte come sapere capace di produrre conoscenza, ma favoriscono la nascita di ecosistemi creativi interdisciplinari, in cui scuola, impresa, istituzioni e società civile possano convergere in processi di innovazione condivisa.

Hub globale dell’alta formazione

Negli ultimi vent’anni l’Italia si è progressivamente affermata la potenzialità come hub mondiale dell’alta formazione creativa, un modello che tuttavia non è mai stato riconosciuto, né potenziato, come politica strategica nazionale. Eppure, i segnali erano chiari: attrattività culturale, qualità della vita, patrimonio artistico diffuso e riconoscibilità del Made in Italy hanno reso il nostro Paese una meta privilegiata per la formazione superiore nei campi dell’arte, del design, della moda e della comunicazione. Questa visione, tuttavia, non è stata raccolta dal decisore pubblico, ma è stata invece colta con grande lucidità dai fondi di investimento internazionali, che hanno progressivamente acquisito le principali istituzioni private del settore: Naba, Domus Academy, Istituto Marangoni, Rufa, Scuola Politecnica di Design, Iaad, e hanno favorito l’installazione di realtà globali come Raffles e altri poli esteri.

Milano, in questo scenario, si è configurata, a partire dall’iniziale esperienza della Naba, come motore sperimentale di questa trasformazione, per ragioni storiche, economiche e culturali: il suo genius loci l’ha resa terreno fertile per l’incrocio tra formazione, industria e internazionalizzazione. Proprio da questa vocazione potrebbe nascere un modello di «Made in Italy didattico» destinato all’export, con tutti i vantaggi (visibilità, economie di scala, reti globali) ma anche con i rischi, da non sottovalutare, di standardizzazione e perdita di controllo nazionale.

È però fondamentale riconoscere che questa dinamica non è limitata a Milano. Tutte le città d’arte italiane, da Firenze a Venezia, da Roma a Torino, hanno seguito questo orientamento, spesso partendo da esperienze legate ai programmi di «study abroad», storicamente presenti a Roma e Firenze, e alla crescente domanda formativa internazionale. In questo contesto, Ied-Istituto Europeo di Design rappresenta un’eccezione significativa: rimasta sotto capitale e proprietà italiana, è oggi una delle poche realtà che unisce dimensione internazionale e radicamento nazionale.

Alla base di questa dinamica di attrazione globale vi è un «grip» territoriale ad alto valore aggiunto, una presa specifica che l’Italia esercita nei confronti degli studenti e dei docenti internazionali, fondata su una combinazione unica di fattori: qualità della vita, sicurezza diffusa, cultura alimentare e, soprattutto, attrattività artistico-culturale. Non si tratta solo di vivere in un «Bel Paese», ma di studiare e creare in un ecosistema che integra saperi tradizionali, patrimonio storico, creatività contemporanea e stile di vita. Le città italiane offrono un’esperienza formativa che è anche esperienziale, immersiva, multisensoriale, un valore che molti sistemi educativi più efficienti ma standardizzati non riescono a replicare.

Questo surplus di qualità immateriale costituisce una leva strategica potente, che genera valore economico non solo per le istituzioni educative, ma per l’intero sistema territoriale: turismo culturale, microimprenditorialità, artigianato evoluto, economia dei servizi, residenzialità temporanea. L’alta formazione, in questo senso, diventa un’infrastruttura trasversale, capace di stratificare valore su molteplici livelli e di rigenerare, in chiave contemporanea, il rapporto tra città e cultura.

Quella che poteva essere una strategia pubblica per l’alta formazione creativa e culturale italiana è così diventata, per inerzia, una politica privata globale. Resta da chiedersi se non sia ancora possibile invertire la rotta, promuovendo una visione nazionale integrata in cui cultura, educazione e attrattività territoriale diventino pilastri di un progetto paese.

Verso un modello europeo plurale

Non esiste un modello unico, né esportabile. Tuttavia, emerge con chiarezza una tendenza: le istituzioni educative che riescono a tenere insieme qualità accademica, autonomia gestionale, radicamento territoriale e apertura internazionale sono quelle che prosperano. L’Europa e l’Italia in particolare per i plus descritti, in questo senso, potrebbe offrire un modello «plurale», in cui l’educazione superiore non sia né un’azienda commerciale, né un ente burocratico, ma una comunità riflessiva organizzata, capace di generare sapere, cittadinanza, cultura e immaginazione. Oggi, nell’era dell’IA, è questo il vero capitale critico.

Città, territori, saperi: una nuova intelligenza territoriale

In un’economia sempre più orientata al turismo esperienziale, alla cultura, alla creatività, la presenza di istituzioni formative forti, innovative, radicate, è un vantaggio competitivo; non solo attraggono studenti e docenti, ma generano eventi, progetti, imprese, reti. Sono il tessuto connettivo di una nuova intelligenza territoriale. Dunque, parlare oggi di formazione superiore significa parlare di futuro. Non si tratta di un settore da finanziare per dovere, ma del cuore pulsante di una società che vuole restare umana in un’epoca di macchine intelligenti. Un cuore fragile, spesso trascurato, ma insostituibile.

Conclusione. L’Italia nella competizione globale dell’alta formazione: la qualità come strategia industriale

In un mercato dell’alta formazione sempre più globale, competitivo e interconnesso, la vera posta in gioco nei prossimi dieci anni non sarà (più) solo l’attrazione di studenti o l’espansione delle sedi, ma la qualità formativa come asset strategico nazionale. La partita non si vince replicando modelli esistenti o moltiplicando strutture, ma elevando il livello delle istituzioni stesse: nella didattica, nella ricerca, nella governance, nel radicamento territoriale e nel posizionamento internazionale.

Se l’Italia ha tutto per emergere (un patrimonio culturale impareggiabile, una qualità della vita desiderabile, un’identità creativa affermata globalmente), non può accontentarsi di essere un parco tematico educativo per studentati globali di fascia medio-bassa, né di offrire versioni sbiadite del modello anglosassone. Il rischio concreto, già visibile in alcune realtà acquisite da fondi esteri, è quello di una «subalternità educativa» che relega le istituzioni italiane a semplici campus satellite di un pensiero formativo esterno, funzionale al mercato ma svuotato di progettualità culturale e ricerca originale.

È qui che si gioca la vera sfida politica ed economica: trasformare il vantaggio comparato dell’Italia (il suo grip territoriale ad alto valore aggiunto, la sua densità simbolica e culturale) in eccellenza globale riconosciuta. Un’eccellenza non solo accademica, ma sistemica: capace di coniugare ricerca e impresa, arte e tecnologia, pensiero critico e impatto sociale.

Le opportunità per farlo sono concrete. Il progressivo aumento esponenziale delle tasse universitarie nel Regno Unito ha reso le università britanniche, luogo tradizionalmente deputato all’eccellenza formativa, molto meno accessibili per gli studenti internazionali. A ciò si aggiungono le barriere burocratiche e logistiche sorte dopo l’uscita dall’Unione Europea, che hanno aperto uno spazio competitivo inedito per i Paesi continentali. Opportunità che territori intelligenti come il Canada e l’Australia hanno saputo cogliere con visione e rapidità, trasformandosi in poli educativi internazionali alternativi al mondo anglosassone classico.

Risulta dunque evidente che l’Italia non può permettersi di perdere questa partita. Al contrario: ha le caratteristiche per diventare la piattaforma formativa ideale delle élite mondiali del futuro, un luogo in cui si coniughino eccellenza accademica, esperienza estetica e cittadinanza globale.

Questa strategia richiede però coraggio politico, investimenti mirati e una regia pubblica capace di vedere nel sistema dell’alta formazione non un costo, ma un’infrastruttura produttiva ad alto moltiplicatore sociale ed economico. È il momento di riconoscere l’università, l’accademia e l’istituto di ricerca non come isole, ma come hub strategici per la trasformazione culturale del Paese. Non servono nuove parole d’ordine, ma una visione: formare non solo studenti, ma futuri.

E il futuro si costruisce oggi, con scelte che sappiano saldare il sapere alla cittadinanza, la cultura alla politica industriale, l’identità italiana alla sua proiezione globale.

Francesco Monico è direttore fondatore Scuola di Nuove tecnologie per l’arte Naba e Accademia Costume e Moda, già Direttore Generale Accademia Unidee, direttore Nodo PhD Planetary Collegium M(T)-Node; è professore di Sociologia del mutamento Isia Roma Design & Pordenone; membro Comitato Scientifico Fondazione All-of-Us Dicastero Vaticano Cultura ed Educazione

Francesco Monico, 09 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Accademia Futura: non solo studenti, ma futuri | Francesco Monico

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