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Ariosto con gli occhi chiusi

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Redazione GDA

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Nell’estate del 2006 mi ritrovai, un po’ per caso, nel Museo bizantino e cristiano di Atene dov’era allestita una bizzarra esposizione dedicata alle relazioni tra l’Impero d’Oriente e quello cinese, nell’età d’oro della dinastia Tang (VII-X secolo). Nel primo dei pannelli esplicativi si ricordava al visitatore la forte discrasia tra le sorti delle due potenze, l’una all’apogeo, l’altra entrata in una delle sue numerose «dark ages». Qual era dunque il senso dell’iniziativa espositiva in quella sede particolare? Nessuno, naturalmente. Di fronte a un’operazione come «Orlando Furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi», mi è tornata in mente la mostra ateniese. Nel catalogo (Fondazione Ferrara Arte) i curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura non nascondono certo l’«azzardo» tentato e dunque invocano una «filologia dell’immaginazione che non rischia di diventare fantafilologia finché si mantenga la consapevolezza che – tranne rarissimi casi – sarebbe velleitario e sostanzialmente fuorviante tentare di rintracciare nel poema di Ariosto una trama di puntuali citazioni di opere figurative».
E allora? Allora, forti di siffatto arsenale metodologico, i due studiosi hanno squadernato una smagliante sequenza visiva, scandita in sezioni tematiche: giostre e battaglie, lo specchio della corte, l’immagine del cavaliere, il meraviglioso, Orlando in campo. Ora, se si fossero limitati a esporre l’olifante di Tolosa, i manoscritti del ciclo arturiano, l’arazzo raffigurante la battaglia di Roncisvalle o la spada dell’ultimo emiro di Granada (finanche la rotella da parata di Polidoro), sarebbe andato tutto bene, una volta scelta la strada, già indicata da Francesco Sberlati nel catalogo della bella e utile mostra ariostesca di Reggio Emilia del ’94, per giungere a cogliere un’imagerie tardogotica nella letteratura cavalleresca. Invece si è puntato al richiamo dell’ennesimo evento spettacolare, scomodando, in virtù di pretestuose analogie tematiche, Pisanello, Paolo Uccello, Piero di Cosimo e Botticelli, Cosmè Tura e Ercole de’ Roberti, Filarete e Bertoldo, Giorgione e Tiziano, Catena e Sebastiano, Dürer e Leonardo, Michelangelo (in copia) e Giuliano da Sangallo, Bramante e Raffaello, secondo un’applicazione un po’ troppo letterale della conclamata varietas ariostesca, oppure ricorrendo a scelte sconcertanti: che c’entra, per fare solo un esempio, il globo dell’obelisco vaticano dei Capitolini? Che domanda! lo sanno tutti che «nell’immaginazione dell’Ariosto la luna è una sfera metallica».
Le patentate vestali, che tuonano contro i prestiti sensazionali alle mostre altrui, questa volta si son girate dall’altra parte, forse chiamate a più alti compiti, e hanno riposto le vesti intatte di fronte alla clamorosa deportazione, spacciata per un trionfale ritorno a Ferrara dopo cinquecento anni, di tutti gli Andrii, precettati solo per offrire, se ho capito bene, un riscontro visivo alla celebre ottava del Furioso in cui Ariosto inserisce Tiziano, nel ’32, in un canone di artisti antichi e moderni: peccato che lo faccia per concludere che l’arte magica, ossia la poesia, è superiore a quella di tutti costoro, sull’esempio, parodiato, di Dante nel Purgatorio.

Va detto che il Furioso accoglie in sé una cultura iconica tanto ricca quanto reticente nel rivelare circostanziate «fonti» visive e dunque è sacrosanto il principio di presentarlo come codice figurativo, quale tramite di una catena associativa che non inizia né finisce con il testo, ma che da questo trae uno strepitoso rafforzamento normativo: tuttavia la menzione esclusiva degli attempati studi di Gnudi (1975), Savarese (1984) e Ceserani (1985) disdegna tutta la ricerca ben più recente compiuta, per esempio, dalla scuola pisana, che tanto ha lavorato sui meccanismi topici dell’epica, i campi metaforici, i segmenti ecfrastici e che certo avrebbe aiutato conoscere. Nel momento in cui si propone a un largo pubblico (che avrà letto, perlopiù, qualche ottava del poema l’ultima volta a scuola) un problema critico di questa complessità, si corre il rischio altissimo di incappare sia nella genericità che nell’oscurità, né più né meno di quando, sempre a Ferrara, si era andati alla ricerca, in Tiziano o in Barocci, di improbabili equivalenti visivi al «parlar disgiunto» di Tasso.

Insomma se la mostra padovana, perfetta, dedicata a Pietro Bembo nel 2013 da Beltramini e Davide Gasparotto, nasceva sotto il segno di Haskell, Shearman e Dionisotti, l’attuale ferrarese sembra uscita, quando va bene, dalle pagine di Malaguzzi Valeri, peraltro giustamente citato. Lasciando da parte il contributo della pattuglia agguerrita e compatta degli italianisti e filologi, tutti e tutte di gran nome, la catena di veggenti convocati intorno al catalogo è saldata da Marco Collareta, con cui i curatori sostengono di essersi costantemente e proficuamente confrontati. A leggerlo non si direbbe, tanto lo studioso vola alto, affrontando tematiche generali che da sempre gli stanno a cuore (in particolare lo statuto dell’arte nell’episteme biblico-cristiana) ma che poco dialogano con le opere esposte: saggio accorgimento adottato anche da altri.

La trance è rotta da Vincenzo Farinella nel riproporre la sua ipotesi, del tutto convincente, che all’invenzione della torma dei vizî di Alcina non sia stata estranea la visione della mantegnesca Minerva che scaccia i Vizî, eseguita per lo studiolo di Isabella d’Este, giunta dal Louvre, da Vladimiro Valerio, alle prese con la geografia un po’ reale un po’ fantastica del Furioso, e da Francesca Borgo che inserisce la descriptio di duelli e battaglie in una trama di riferimenti figurativi e testuali (da Angelo Decembrio a Gaurico) tutt’altro che estrinseci, firmando l’unico saggio veramente necessario. Ma già s’annuncia Omero alle Scuderie.


Massimiliano Rossi

ordinario di Museologia e Storia della Critica d’arte Università del Salento (Lecce), ideatore e curatore della mostra «L’arme e gli amori, La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento» (Firenze, Palazzo Pitti, 2001) e vicepresidente del Comité internationale d’Histore de L’art, Italia.

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Redazione GDA, 01 dicembre 2016 | © Riproduzione riservata

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