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Ritratto di Andrea Bellini. Foto © Mathilde Agius

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Ritratto di Andrea Bellini. Foto © Mathilde Agius

Le storie dell’arte contemporanea di Andrea Bellini

Iniziati come «quasi terapeutici» durante la pandemia, con questi racconti l’autore descrive e in parte accusa la comunità dell’arte contemporanea (anche sé stesso)

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Alessandra Mammì

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Potremmo definirlo un diario. O forse un pamphlet. Di sicuro è un grande affresco su un mondo che ha perso l’anima. Queste «Storie dell’arte contemporanea» scritte (benissimo) da Andrea Bellini, pubblicate da Timeo e incatenate l’una all’altra in forma di racconti minimi, ritmati come flash, polaroid, frammenti di un puzzle, costruiscono un libro ipnotico per chiunque soffra (come l’autore) il disagio di lavorare in una comunità un tempo bislacca ma creativa, intelligente e passionale e che oggi appare stravolta e inaridita.

Forse per accorgersi di tanto cambiamento ci voleva uno sguardo dall’esterno e un provvisorio isolamento dal circo degli incontri, degli eventi, delle mostre. Ricorda infatti Bellini di aver cominciato nel 2020 durante la pandemia: «All’inizio i racconti erano quasi terapeutici, li scrivevo per me e non pensavo a farne un libro. È stato Andrea Cortellessa un amico, un critico letterario che stimo moltissimo a spingermi a continuare e a sperimentare per la prima volta una scrittura che non aveva come oggetto l’arte, non era un metalinguaggio ma un processo creativo e spontaneo. È così che ho cominciato a raccontare quel che vedevo e vivevo».

Dal suo osservatorio di direttore del Centre d’Art Contemporain nella opulenta e imperturbabile Ginevra, Bellini affronta dunque un personalissimo viaggio in un ambiente dominato dall’eccesso del lusso, da un esorbitante potere finanziario, da opere private di senso e trasformate in prodotto. Si muove straniato e smarrito, accompagnato da un disagio che ricorda il Marcello (Mastroianni) felliniano della «Dolce vita».

La sua personale crisi esistenziale si fonde con la crisi di un mondo che, episodio dopo episodio, ci appare ormai svuotato di senso mentre prendono corpo personaggi a volte decisamente riconoscibili. Il febbricitante e pallido H.U. è forse Obrist? Il Padre della patria curatoriale, Celant? L’artista che diventa suo padre non è ovviamente Roberto Cuoghi?

Ma ben più forti del gioco «Chi è chi?» sono gli stereotipi che abbracciano intere tipologie di artista o critico, gallerista o curatore e curatrice. Il black look e gli abiti di gran marca che imperversano, gli slogan del politicamente corretto recitati fra champagne e foie gras, i testi e i libri della moda del momento. In una fiera delle vanità che abbraccia tutto l’Occidente, queste figure si agitano sullo sfondo di una società viziata e ricca, abitata da «collezionisti che movimentano casse contenenti opere d’arte senza mai guardarci dentro»; «curatori che pensano di essere storici dell’arte e manifestano un vago interesse  verso il passato, vale a dire un’epoca antecedente alle ultime ventiquattr’ore»; speculatori che costruiscono «fondi di investimento su opere di artisti famosi trasformate in azioni di borsa»; critici un tempo prestigiosi e ora depressi in quanto convinti di essere sul viale del tramonto solo perché espulsi dalla lista «Power100», più influenti personaggi dell’arte redatta ogni anno da «ArtReview».

Non era così quando Bellini ha cominciato agli inizi del nuovo millennio come giornalista e caporedattore di Flash Art International a New York e poi come direttore di una fiera (Artissima 2007-09) fino alla condirezione del Castello di Rivoli e al governo della kunsthalle ginevrina. Il passaggio da un’economia di mercato fatta di gallerie, studio visit e collezionisti maniacali ma appassionati a una realtà finanziaria e globale è avvenuto a poco a poco. Lo illustra bene una certa Ellen a pagina 93 spiegando al gallerista Robetin perché la sua vita è sbagliata: «tu sai meglio di me che tutto è cominciato a cambiare parallelamente alla crisi finanziaria del 2008. Dopo un momento di incertezza la gente, che era riuscita a mettere da parte denaro liquido grazie alla politica monetaria del quantitative easing, ha iniziato a investire in arte in modo sistematico. Questi cosiddetti nuovi collezionisti avevano bisogno di piazzare i loro fondi in un mercato alternativo a quello finanziario. La questione è tutta qui, caro Robetin, le cose cambiano perché un gruppo di nuovi attori si mette a spendere tanti soldi nel mondo dell’arte con un obiettivo che non è esattamente quello di costruire una collezione... da quel mercato ti hanno tagliato fuori e allora hai cominciato a sfornare mostre di artiste donne, meglio se afroamericane. D’altronde i loro studi erano pieni di lavori che non costavano niente, praticamente una manna dal cielo... tante opere a disposizione per le decine di fiere annuali, in più in odore di santità perché prodotte dalla classe subalterna, tanto per citare Gramsci...».
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La sincerità disarmante che traspare da questo libro lo rende un «j’accuse» che l’autore rivolge anche contro di sé. Bellini è consapevole di essere testimone ma anche complice. Sa che il mondo che descrive è a tutti gli effetti il suo e non si ribella. Non c’è giudizio moralistico anche di fronte al cinismo che impera. Non c’è satira anche se a volte si ride. «Se si vuol essere spietati nel guardare il mondo va bene, ma bisogna cominciare con sé stessi e con sé stessi essere implacabili», scrive nelle pagine conclusive. «Insomma, non fidatevi dei miei giudizi. Nemmeno io, vi assicuro, mi fido di me stesso...». Lui si limita ad annotare, trascrivere, registrare una trasformazione in atto come un antico cronista. E nel farlo ci regala un intenso e chirurgico racconto corale in cui è impossibile non riconoscersi e che vale la pena di tenere a mente, soprattutto per cercare di cambiare qualcosa.

Alessandra Mammì, 09 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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