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Stefano Collicelli Cagol

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Stefano Collicelli Cagol

Dopo 35 anni il Pecci è ancora una promessa

«Le cause sono molte: finanziamenti non continuativi e mandati brevi a direttori di forte personalità, che hanno fatto belle cose ma spesso hanno lasciato il deserto dopo di loro. Io voglio invertire questa tendenza», spiega Stefano Collicelli Cagol, neodirettore del Centro Pecci di Prato

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Alessandra Mammì

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Son passati 35 anni da quando, quel 25 giugno 1988, nasce il Centro Pecci a Prato. Trentacinque anni, dieci direttori, un'altalena di momenti di gloria e crisi, mostre epocali e tempeste polemiche. Museo, centro espositivo, luogo di sperimentazione: il Pecci, nonostante le sue punte di grandezza, nella geografia dell'arte italiana è ancora una promessa, afflitto da una crisi di identità che gli ha impedito di sedimentare le sue grandi occasioni. Come la scuola di curatori fondata dal primo direttore Amnon Barzel che fu anche artefice di storiche iniziative come l’indimenticabile e prima apparizione fuori dall’Urss di artisti russi, inaugurata pochi mesi dopo la caduta del muro (1990). O la direzione di Ida Panicelli che istituì la Giornata di Lotta dell’Aids e insieme a Germano Celant portò in Italia la grande mostra di Robert Mapplethorpe che, tra indignazione e acclamazione, del museo è la più visitata in assoluto. Mentre della più lunga reggenza di Bruno Corà restano nella memoria le solide e storiche retrospettive che partivano da Burri e Fontana e arrivavano a Gerhard Richter.

Gli succede un Daniel Soutif che consente a Wim Delvoye (2003) di costruire la «Turbo Cloaca»: vero e proprio apparato digerente in ferro e vetro per la gloria e l'ironia dei media. Qualche anno dopo Fabio Cavallucci mette in piedi un Forum dell’arte contemporanea dove per tre giorni nel settembre del 2016 si riuniscono a discutere dello stato dell'arte contemporanea oltre 400 relatori in 42 tavoli di lavoro e mille partecipanti dall’Italia e dall’estero.

E mentre la gestione Cavallucci si chiude con la grande mostra sulla «Fine del mondo» e la lezione magistrale di Zygmunt Bauman, quella di Cristiana Perrella riesce a gestire la crisi del Covid attraverso la web tv e una serie di iniziative interdisciplinari che tengono vivo il Centro con contenuti giornalieri e un’intensa attività interdisciplinare di eventi, mostre e performance tra le finestre dei lockdown. Eppure nonostante una storia tanto ricca, la maledizione del Pecci è il suo continuo ricominciare, la difficoltà a rendere perpetua quella pur fiammeggiante sequenza di eventi. Ora l’onore e l’onere è sulle spalle di Stefano Collicelli Cagol (Padova, 1978), attuale direttore con mandato triennale che qui racconta come intende rendere adulto un museo in perenne crisi adolescenziale.

Dunque direttore ci sarà grande festa il 25 giugno per i 35 anni del Pecci?
No, nessuna festa. La mia grande opening è stata l’allestimento della collezione permanente che attraverso le opere già racconta la storia di questo museo. Anche il titolo «Eccentrica» è la sintesi del suo percorso a cui è mancato un centro di gravità. E sono convinto che quel centro lo può dare solo una collezione permanente: peso specifico dell’istituzione, che restituisce identità anche se non c’è un evento, se non c’è una mostra. È il simbolo di quella idea di continuità che il Pecci non ha mai avuto.

Forse anche perché dieci direttori in 35 anni sono troppi. Anche lei è qui con mandato triennale. Non pensa che per dare identità a un museo sia necessario più di tempo?

Io credo che si possa seminare molto in tre anni. È quello che sto cercando di fare ricucendo rapporti con il territorio, riconfermando la valenza del museo con la comunità, implementando la comunicazione...

Tradotto in esempi concreti?

Prato è una città con molte più risorse di quanto si immagini. Può regalare un’esperienza di Toscana diversa da Firenze ma altrettanto completa. Ha musei importanti e unici come il Museo del Tessuto o quello delle Scienze, capolavori medievali e rinascimentali, collezioni storiche, teatri come il Metastasio e il Fabbricone e persino ottimi ristoranti. Bisogna unirsi per sfruttare questo potenziale. Con il Museo del Tessuto ad esempio abbiamo in progetto uno scambio di opere: da noi un pezzo storico di Coveri anni Ottanta, a loro un’opera della nostra collezione. Lavorare insieme con uno sguardo che abbracci l’intera offerta che può dare la città è la strada giusta.

Per il Pecci quali progetti ha?
La stessa strategia portata all’interno del museo che ha struttura troppo labirintica e non ci si orienta negli spazi. Ci vuole una regia che s’ispiri a quella forte impronta identitaria che hanno luoghi come la Tate Modern a Londra: un corpo unico dalla caffetteria alle sale espositive. Anche qui: ovunque tu sia, ti devi sentire al Pecci. Un’unica immagine, un unico layout a cui devono obbedire anche gli spazi in concessione. Sembrano cose piccole ma sono essenziali se si vuole ottenere che il visitatore non venga solo a vedere una mostra, ma ci scelga per occupare un tempo completo visitando la collezione, prenotando una cena, un concerto, un film. Devo strappare il Pecci all’idea di un luogo mordi e fuggi, dove si vede la mostra e poi si scappa.

È responsabilità dei precedenti direttori se il Pecci ha questa immagine?
Credo che le cause siano molte. Finanziamenti non continuativi e poi certamente mandati brevi a direttori di forte personalità che hanno cercato di modellare il museo alle loro esperienze. Operazioni morte con loro, perché questa pratica magari permette di fare belle cose ma poi lascia il deserto. Io voglio invertire questa tendenza, voglio posizionare l’istituzione verso l’immaginario di chi la deve abitare. Questo è un luogo di servizio dove la parte espositiva da essenziale deve diventare funzionale. Per questo preferisco lavorare chirurgicamente, in prima persona: ricostruire una rete di Amici del Pecci, incontrare gli imprenditori, andare nelle scuole parlare con gli studenti e cercare di capire cosa vorrebbero dal loro museo.

E lo ha capito?
Spero di sì. Ho capito che hanno un immaginario dark, vanno pazzi per il crime, l’horror, il noir. Dunque per attirarli tutti qui, sto preparando per settembre una grande mostra di Diego Marcon (nato a Busto Arsizio, Va, nel 1985, è protagonista con la sua prima antologica istituzionale in Italia al Teatro Gerolamo di Milano fino al 30 giugno, organizzata dalla Fondazione Trussardi per i suoi vent’anni; Ndr). L’orrore dietro la superficie perfetta... Funzionerà.

Stefano Collicelli Cagol

Alessandra Mammì, 22 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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Laureato in Storia dell’arte e specializzato in Estetica liturgica, il sacerdote e docente madrileno è membro della Consulta dell’Ufficio liturgico nazionale: «Una chiesa cattolica non può essere una spoglia “aula liturgica”. Gli architetti e gli artisti devono ascoltare la comunità. La forza dell’arte è raggiungere l’invisibile attraverso il visibile» 

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