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Barak Obama di fronte a «9-11» di Keith Mayerson, al Whitney Museum of American Art nel 2015. Official White House. Foto Pete Souza

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Barak Obama di fronte a «9-11» di Keith Mayerson, al Whitney Museum of American Art nel 2015. Official White House. Foto Pete Souza

Un temporale di cenere e nuvole

Nel ventesimo anniversario dell’11 settembre alcuni artisti riflettono sull'impatto che l'evento ha avuto sul loro lavoro

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Redazione GDA

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Gli attacchi terroristici dell’11 settembre a New York e nei pressi di Washington, DC, hanno cambiato in modo irreversibile la vita in America. Oltre alle conseguenze a lungo termine sulla politica del paese e sulla sicurezza nazionale (gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan nell’ottobre del 2001 poiché i Talebani si erano rifiutati di consegnare i leader di Al Qaeda responsabili degli attacchi) questi eventi stimolarono risposte artistiche che riecheggiano tuttora.

Nel ventesimo anniversario dell’11 settembre, The Art Newspaper ha chiesto a diversi artisti di riflettere su quel giorno e sull’impatto che ebbe sul loro lavoro. La mattina in cui due aerei dirottati colpirono le torri gemelle nel World Trade Center, l’11 settembre 2001, gli artisti newyorkesi Mike e Doug Starn ricordano che soffiava una dolce brezza da sudest. Il loro studio di Brooklyn si trova in un’area all’incrocio tra i quartieri di Red Hook e Carrol Gardens, a un miglio e mezzo dal World Trade Center, e i documenti di lavoro di molti impiegati uccisi nell’attentato cominciarono a cadere per strada, insieme alla posta trasportata su uno degli aerei.

Al tempo, gli artisti (fratelli gemelli) stavano realizzando delle opere che includevano foglie che cadevano dagli alberi. «Mentre i documenti cadevano tutto intorno allo studio, come enormi ammassi di immondizia, sentimmo il dovere di andare a raccoglierli», raccontano i fratelli in una dichiarazione d’artista. «Essi erano appartenuti a qualcuno: dobbiamo aiutarli, poiché in un certo senso essi sono parte delle persone che sono morte, non possiamo lasciarli lì come semplice spazzatura».

Lo shock dell’11 settembre e le riflessioni che ne sono conseguite li hanno portati a creare la serie Fallen. «Abbiamo ricoperto i documenti di gelatina d’argento e stampato delle fotografie di foglie; i documenti caddero dal cielo come le foglie in autunno. Le foglie sono i polmoni viventi degli alberi, che assorbono la luce del sole e con essa costruiscono gli alberi, spiegano gli artisti, attraverso questo procedimento abbiamo sperato di vedere la vita e la morte racchiuse in questi documenti». I fratelli Starn ricordano in particolare una lettera spedita da Boston che doveva arrivare a Los Angeles: «Il francobollo di questa lettera, datato all’ultimo giorno di innocenza, sembra far dialogare la tranquillità con cui i passeggeri si imbarcarono su quell’aereo la mattina dell’11 settembre e l’orrore del loro destino».

Guardando indietro a quel giorno fatidico del 2001, Mike Starn vede una traiettoria inesorabile che giunge alla situazione politica e culturale in cui si trova l’America di oggi. «È evidente che l’attentato fu uno shock enorme per il sistema esistente e che fece scontrare due ideologie opposte: il nazionalismo di destra sprofondò in un nuovo livello di cinico e violento trumpismo e contemporaneamente si diffuse un umanesimo più aperto e persino progressista», ha spiegato in una mail. «[Nell’opera] che include il francobollo di Boston, io e Doug vediamo quello che sembra essere l’ultimo giorno di innocenza infantile per l’America».

«Probabilmente fu uno shock ancora più grande per gli americani bianchi, che non si erano mai sentiti in pericolo in casa propria», a differenza, per esempio, di coloro che morirono nel 1921 nel massacro di cittadini neri a Tulsa in Oklahoma. Ora, osserva, gli americani bianchi si sono uniti agli americani neri nel protestare contro l’uccisione da parte della polizia di uomini neri, tra cui Eric Garner, George Floyd e altri.

Il pittore Ford Crull si trovava nel suo studio a Broadway sotto Chambers Street quando il primo aereo colpì la torre nord del World Trade Center. Da City Hall Park, a pochi isolati di distanza, egli vide il secondo aereo abbattere la torre sud. «Non fu un impatto rauco. Non era quello il suono. Non fu neanche molto rumoroso. Sembrava quasi che l’edificio avesse assorbito l’aereo», ha spiegato.

Il cielo, rammenta, era surreale. «Ovunque fogli di carta planavano nel cielo e cadevano come pioggia». Nel crollo degli edifici, «una nube di cenere e polvere avvolse ogni cosa, come se ci trovassimo nell’era del Dustbowl [periodo in cui si scatenavano grandi tempeste di sabbia negli Stati Uniti, ndr]», ha detto. «Quando l’aria si fu schiarita, la zona era completamente rasa al suolo».

La polizia evacuò immediatamente Crull e chiunque si trovasse nella zona su barche dirette in New Jersey, ma Crull prese un treno per tornare a Manhattan e si diresse in centro superando i checkpoint di sicurezza. Scattò anche delle foto: «Avevo una Nikon e il suo caricatore, ma il problema era trovare un posto dove caricarla. Incredibilmente, Il Reade Street Pub and Bar aveva ancora la corrente».

I suoi scatti dell’11 settembre mostrano scene di vuoto e desolazione. Alcune erano avvolte in una nebbia bianca e marrone, una mostrava il New York Stock Exchange ergersi dietro a delle barriere in lontananza. «Sono rimasto lì con il mio badge falso finché la Guardia Nazionale non ci ha cacciati tutti, spiega Crull. Per settimane è stato difficile respirare, c’era un odore impossibile da dimenticare: di sporco, metallo e gomma bruciata, come quando lavoravo in acciaieria. Di tanto in tanto, quanto sento quest’odore, mi torna ancora in mente l’11 settembre».

«Il primo dipinto che realizzai dopo l’11 settembre era molto rosso, con il titolo in basso: «All That Matters». Tenni poi un’esposizione nella seconda metà di novembre [2001] a New York e quella, curiosamente, fu l’unica opera a essere venduta. È a metà tra un edificio e il torso di una persona», dice Crull, che normalmente si muove nell’astrattismo.

L’eredità della guerra al terrore
Come molti altri americani, anche l’artista e geografo Trevor Paglen ricorda esattamente dove si trovava quando arrivò la notizia che due aerei si erano schiantati nel World Trade Center: in un cortile dell’Art Institute of Chicago, dove era uno studente magistrale di belle arti. Un amico corse fuori dall’edificio per annunciare il fatto: «Entrammo in una classe e continuavamo ad aggiornare il sito della CNN (internet era molto più lento allora); alla fine annullarono le lezioni», racconta.

Al tempo, Paglen stava lavorando a una serie di opere che indagavano sul fenomeno americano delle incarcerazioni di massa attraverso immagini, video e registrazioni audio che aveva realizzato nel corso delle sue visite alle prigioni californiane. Dopo che gli attentati dell’11 settembre spinsero gli USA a intraprendere la cosiddetta «guerra al terrore», Paglen espanse le sue ricerche ai «siti neri»: una rete di prigioni clandestine istituite all’estero per soggetti sospettati di terrorismo dalla CIA, dove si usava abitualmente la tortura per estorcere informazioni.

«Abbiamo viaggiato in tutto il mondo per cercare questi siti neri e per comprenderne l’impatto sulla politica e sulla cultura», spiega Paglen, in riferimento a Torture Taxi, un libro del 2006 scritto in collaborazione con il giornalista A. C. Thompson. Sfruttando le proprie conoscenze in astronomia, egli realizzò migliaia di fotografie, molte delle quali scattate a oltre 20 miglia di distanza, di strutture militari e di intelligence inaccessibili ai civili, come la prigione di Salt Pit a est di Kabul, in Afghanistan, scattata nel 2005.

Un’altra serie si concentrava sulle firme di persone fittizie, per esempio una persona «nata negli anni Sessanta ma con un numero di provvidenza sociale creato negli anni Novanta», apportate a documenti per la creazione di società prestanome da parte della CIA per aggirare le convenzioni internazionali che restringevano il campo d’azione delle forze armate statunitensi. Paglen fotografò anche uomini della CIA che utilizzavano passaporti finti, aerei non identificati per il trasporto di prigionieri, creazioni della cultura militare americana e siti come l’Area 51 nel sud del Nevada, un poligono di prova e di addestramento altamente classificato per l’aeronautica statunitense.

«Non direi che gli attentati hanno avuto una grande influenza sul mio modo di pensare, non quanto l’amorfa e ambigua guerra al terrore e il potere illimitato dato al presidente dall’autorizzazione delle forze militari, afferma Paglen. Inizi a vedere che le istituzioni cambiano, le norme cambiano e la guerra al terrore ha un forte impatto sulla vita quotidiana e sulle istituzioni negli Stati Uniti», tra cui l’espansione della sorveglianza di massa. «Credo che non abbia influenzato solo la mia visione del mondo, ma il mondo intero».

La storia recente dei Talebani, che ha portato a concitati tentativi di fuga da parte di migliaia di cittadini afghani, è stata «straziante», dice Paglen, sottolineando l’aiuto da lui ricevuto durante la sua odissea investigativa in Afghanistan: «Provo compassione per le persone con cui ho lavorato».

«Non tutta l’arte è terapia»
Il pittore Keith Mayerson, che allora viveva a SoHo e insegnava alla New York University, ricorda di essersi recato alla lezione di disegno del primo anno poco dopo l’impatto dei due aerei, «sopraffatto dallo shock», e di aver trovato i suoi studenti ugualmente sconcertati. «Dissi loro che “non tutta l’arte è terapia, ma non so cos’altro fare se non uscire e andare a disegnare [quello che è appena successo]”, racconta. Ci recammo velocemente a Washington Square Park, dove si aveva una perfetta visuale delle torri, e mentre i miei studenti tiravano fuori i propri quaderni, la prima torre cadde».

«Per molti anni dipinsi l’11 settembre per allegorie: Jimmy Stewart che si aggrappa ne La donna che visse due volte, il remake degli anni Settanta di King Kong, dove lui cade dalle torri, Spiderman che cerca di salvare tutti, aggiunge Mayerson, ma avevo incubi ricorrenti delle persone che cadevano e si lanciavano giù dalle torri».

Ci vollero circa sei anni perché riuscisse a dipingere esplicitamente gli eventi di quel giorno, prendendo le immagini di giornali che suo padre aveva conservato. L’opera del 2007 «9-11» che mostrava una delle torri in fiamme, ora nella collezione del Whitney Museum of American Art, «è l’opera più difficile che abbia mai dipinto», spiega.

Il lavoro fu incluso nella mostra di inaugurazione del museo nella sua nuova sede nel 2015, «America Is Hard to See», che fu visitata dall’allora presidente Barack Obama. Mayerson da allora ha realizzato un nuovo dipinto, basato su una foto ufficiale del presidente mentre si sofferma solennemente di fronte al quadro originale, «con tutti i sentimenti e le emozioni che ho provato io per questa crisi, e per come essa abbia continuato a influenzare l’America e la civiltà mondiale, le guerre, gli errori e la riorganizzazione della nostra politica e della nostra ideologia».

L’artista multidisciplinare Paul Chan dice che gli attentati terroristici dell’11 settembre hanno profondamente influenzato opere come «The 7 Lights» (2005-2007), una serie di animazioni create con un software obsoleto che esplora temi come la fede, la tecnologia e la politica. Nei primi lavori della serie, «1st Light», attualmente in mostra al Museum of Modern Art (MoMA), le ombre dei veicoli abbandonati, dei cellulari e di altri detriti crescono mentre compaiono corpi che cadono dal cielo. Nel titolo, «La luce» viene eliminata, fa notare il MoMA, «per suggerire la sua assenza incombente».

Chan spiega che stava cercando di trovare una forma che «esprimesse di più della mera tragedia» ed evocasse «le condizioni sociali, politiche e spirituali che sottoscrivevano ciò che è successo» l’11 settembre. Nel corso del tempo gli attacchi hanno avuto un impatto a lungo termine sulla sua filosofia. «Penso che abbia lo stesso effetto che avrebbe qualsiasi evento memorabile, come la nascita di un figlio o la morte di un caro, spiega. Mi ricorda quanto poco tempo rimanga a tutti noi, tutto ciò che è stato perduto, quanto siamo vicini al vedere tutto scomparire, e cosa ci serve per andare avanti».

Leggi anche la lettera di Lucio Pozzi pubblicata nell'edizione di settembre 2001 del Giornale dell'Arte

Keith Mayerson «9-11», 2007 (particolare). Whitney Museum of American Art

Barak Obama di fronte a «9-11» di Keith Mayerson, al Whitney Museum of American Art nel 2015. Official White House. Foto Pete Souza

Redazione GDA, 11 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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