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Silenzio, mi ritiro a dipingere

La ribellione precoce di Mimmo Paladino alla «tirannia dell’idea»

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Mentre a Brescia continua fino al prossimo gennaio la mostra a «dimensione urbana» di Mimmo Paladino, diffusa nei luoghi simbolo della città e nel Museo di Santa Giulia (cfr. n. 376, giu. ’17, p. 45), Skira pubblica un’imponente monografia di Germano Celant su questo artista che ha esplorato i linguaggi espressivi più diversi, con una speciale attenzione alle relazioni che fra essi s’intrecciano.

Affiancato dallo stesso Mimmo Paladino e dalla sua famiglia, Celant (con Diletta Borromeo) ha potuto rintracciare nei suoi archivi, oltre che in altre istituzioni, pubbliche e private, una mole di documenti che gli hanno consentito di inquadrarne criticamente il percorso con sempre maggiore acuità, sebbene la loro frequentazione sia antica. Data, infatti, al 1979, quando Paladino espose a Colonia da Paul Maenz, nella profetica mostra «Arte Cifra», l’evento che per primo testimoniò l’interesse internazionale per la nuova pittura italiana, presto coagulata da Achille Bonito Oliva nel gruppo della Transavanguardia.

Solo un anno prima, nella personale da Giorgio Persano a Torino, Paladino aveva espresso una ferma dichiarazione d’intenti quando, fra i graffiti a matita e pastelli tracciati su pareti e soffitto della galleria, aveva esposto un piccolo dipinto (il suo primo olio) intitolato programmaticamente «Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro» (1977): un emblema della necessità di «fare pittura», a dispetto del clima dominante, freddamente concettuale.

Nel testo storico-critico che apre il volume, Celant ripercorre la vicenda di Paladino sin dalla metà degli anni Sessanta, quando il giovanissimo Mimmo, al seguito dello zio pittore Salvatore Paladino, attivo nella compagine napoletana d’avanguardia Gruppo 58 (con Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello e altri), apriva gli occhi sulla realtà artistica nazionale e internazionale e visitava con lui anche la famosa Biennale di Venezia del 1964 che, con il trionfo di Rauschenberg, sconvolse gli equilibri del sistema dell’arte ma affascinò senza rimedio il futuro artista.

Il suo vero debutto, tuttavia, è del 1968, quando espone nella prima personale, a Portici, in un contesto temporale che rifiuta la pittura, predicando la dematerializzazione assoluta dell’arte e sostituendo l’oggetto artistico con la speculazione filosofica. In tale clima di «tirannia dell’idea», che perdurerà per un intero decennio, rendendo quasi impossibile la pratica dei linguaggi tradizionali della pittura e della scultura, Paladino porrà invece le basi del suo alfabeto, pittorico e plastico, di forme e di contenuti. E lo farà affidandosi sin d’allora, in assoluta controtendenza, al pensiero magico e a un’«archeologia della memoria» che lo condurrà sempre più in profondità in una dimensione mitica e ancestrale, magica e numinosa, profondamente radicata nella cultura antichissima del suo territorio. «Arrivo da una cultura dell’entroterra, una cultura solida. In campagna abbondano leggende, culto dei morti, streghe e fate. Un senso del mistero pagano, religioso e spirituale insieme, tipico del Meridione».

Una cronologia illustrata, curata da Diletta Borromeo, segue Paladino nei suoi progressivi «sconfinamenti» dalla pittura alla scultura, dalla dimensione ambientale alla scenografia, al cinema. L’artista afferma: «Mi ritengo sostanzialmente un pittore e credo del resto di esprimermi con la pittura anche quando non uso i pennelli». Negli apparati sono elencati esposizioni e progetti che, con successo crescente, lo hanno portato e lo portano nel mondo intero, e una bibliografia completa dell’artista e sull’artista.

Mimmo Paladino
di Germano Celant
736 pp., ill. col.
Skira, Milano 2017
€ 75,00

Ada Masoero, 06 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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