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L'incendio occorso il 3 settembre al Museo Nazionale di Rio de Janeiro

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L'incendio occorso il 3 settembre al Museo Nazionale di Rio de Janeiro

Prima che bruci tutto

Spesso alla classe dirigente sfugge il ruolo propulsore che i musei hanno nella nostra società

Salvatore Settis

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Lo scorso 3 settembre un devastante incendio distruggeva il Museo Nazionale di Rio de Janeiro. Quell’evento, geograficamente così remoto, ci riguarda in realtà da vicino: e non solo perché fra le collezioni annientate dal fuoco c’erano centinaia di reperti archeologici dall’Italia raccolti dall’imperatrice Teresa Cristina, sorella del re di Napoli Ferdinando II, ma perché l’incuria in cui quel museo era stato lasciato segnala, pur in una situazione culturale e politica molto diversa da quella dei Paesi europei, l’orizzonte di un possibile degrado della memoria culturale e delle istituzioni, come i musei, che ne sono serbatoi e custodi.

Dietro le responsabilità e le negligenze contingenti di quell’incendio vi sono infatti sviluppi e problemi di ben più vasta portata. Due fattori appaiono essenziali: primo, quella che è stata chiamata la «decapitalizzazione», processo istituzionale di spostamento della capitale (da Rio a Brasilia, o da Istanbul ad Ankara), che comporta il rischio che le istituzioni di una città non più capitale vengano trascurate o marginalizzate dalla politica. Secondo fattore, il taglio ai finanziamenti delle istituzioni culturali che prende spesso la forma di una devoluzione di determinate istituzioni (nel caso di Rio, dallo Stato federale all’Università), con incerta suddivisione delle responsabilità e allentamento di sorveglianza e prevenzione.

Ora, questo processo di progressiva marginalizzazione delle istituzioni culturali (musei, archivi, biblioteche...) si fonda su un pregiudizio assai diffuso anche in Europa: che tali istituzioni siano depositi meramente passivi di oggetti del passato, destituiti di ogni attualità [...] e del tutto inutili per la costruzione del futuro. È su questa base [...] che sempre più spesso la conservazione e l’alimentazione della memoria culturale tende [...] ad essere considerata sempre meno importante nell’ordine delle priorità politiche e degli investimenti pubblici. [...] Musei, archivi e biblioteche, depositi di una vasta documentazione su eventi pregressi, vengono contrapposti al vibrare sempre diverso delle nuove tecnologie; e si diffonde la convinzione che la progettazione del futuro debba farsi a spese di una progressiva marginalizzazione del passato [...].

Le nuove priorità che si vanno imponendo (la tecnologia, l’economia, il presente) tendono a confinare le istituzioni dedicate alla memoria culturale in una sorta di limbo, considerandole quasi un lusso rispetto alle esigenze, che si pretendono inaggirabili, di una società, la nostra, dominata da una continua corsa in avanti, in cui di guardare indietro non c’è né modo né tempo. Eppure, questa stessa contrapposizione fu intravista molto tempo fa, ma come qualcosa di fecondamente stimolante e positivo.

Viene in mente una pagina del grande storico dell’architettura John Summerson, secondo cui «si può dire che l’architettura moderna sia nata il giorno in cui Viollet-le-Duc, in una lezione memorabile, propose un parallelo fra la capacità dei Greci di dar forma artistica alle loro mitologie e la potenzialità del mondo moderno di fare altrettanto con l’elettricità e le altre tecniche». Idea visionaria, e però in certa misura ambigua, perché mentre arricchisce di contenuti potenziali [...] il ventaglio delle nuove tecniche e tecnologie può altresì comportare un processo di radicale sostituzione della tecnologia all’immaginazione poietica e alla memoria culturale.

L’ossessiva concentrazione sul presente, caratteristica macroscopica del nostro tempo, minaccia ogni discorso e ogni buona pratica sulla conservazione della memoria storica. Due processi convergenti, la globalizzazione e l’accelerazione dei tempo storico, creano intorno a noi nuove coordinate di cui siamo raramente consapevoli: anzi, la compressione spazio-tempo, tipicamente postmoderna, si nutre al tempo stesso di un violento accelerarsi del tempo e di una indefinita espansione dello spazio. Paradossalmente, l’effetto finale di questo doppio processo, che pure in apparenza valorizza al massimo l’istante che viviamo, è la riduzione del tempo a un perpetuo presente, sempre più «corto» e senza respiro, sempre più asservito alle ragioni politiche ed economiche del momento.

Di questo «presentismo» ha scritto in modo molto efficace lo storico francese François Hartog, che ne ha rilevato la matrice già nel Futurismo italiano, con il suo culto per la velocità. [...] Ma forse nessuno ha saputo prevedere questo sviluppo con la lucidità visionaria di T.S. Eliot, che affidò a un saggio su Virgilio (1944) una notazione folgorante: «Nel nostro tempo, quando gli uomini sembrano più inclini che mai a confondere la saggezza con la conoscenza e la conoscenza con l’informazione, sta prendendo forma un nuovo tipo di provincialismo, che forse merita un nuovo nome. È il provincialismo non dello spazio, ma del tempo. Per esso la storia è solo cronaca di invenzioni umane che, dopo aver reso un qualche servizio, sono state cestinate. Per esso il mondo appartiene solo ai viventi, e chi è morto non conta nulla. È un provincialismo minaccioso: spinge noi tutti, anzi tutti i popoli del globo, a essere provinciali insieme, e a chi non vuole esserlo non resta che fare l’eremita».

[Oggi] è quanto mai importante porre il problema del nostro rapporto con il passato non nella sola dimensione, pur così rilevante, delle professionalità e delle pratiche museali, ma in un contesto culturalmente e socialmente più ampio: considerando i musei come laboratorio privilegiato per riflettere sul nostro rapporto con il passato, anzi con i tempi lunghi della storia. È anche per questa ragione che i musei devono dare l’esempio, con le proprie buone pratiche, di una visione lungimirante, che non si limiti alla passiva conservazione ma si impegni in una continua ricerca conoscitiva sulle proprie collezioni, e usi al massimo le capacità predittive e le nuove tecnologie per «anticipare il futuro» mediante la conservazione preventiva.

Ma perché questa visione lungimirante è tanto importante nei musei, e perché travalica le mere pratiche museali? Vorrei fare qui riferimento a una nozione giuridica e filosofica relativamente recente, quella dei «diritti delle generazioni future». È questa una nozione che prende sempre più importanza come reazione o rimedio ai nuovi pericoli di un mondo sempre più caratterizzato da una vista corta, ben esemplificata dall’incapacità di affrontare in modo efficace i cambiamenti climatici, che perfino qualche capo di Stato (come il presidente Trump) si ostina irresponsabilmente a negare.

Ma l’enormità di queste sfide del nostro tempo e la loro marcata proiezione verso il futuro non devono offuscarci la vista. Al contrario, dobbiamo saper volgere il nostro sguardo anche verso il passato, e riconoscere che la visione lungimirante per la quale combattiamo contro la miopia di un miserevole presentismo corrisponde a ben più antichi obiettivi etici, pratiche civili, concezioni giuridiche. Risuona infatti fortissima, in queste nuove formule del diritto, la voce antica del pubblico interesse come nettamente sovraordinato agli interessi e ai comportamenti del singolo. [...] Perché «gli uomini che non guardano mai indietro, verso i propri antenati, non saranno mai capaci di guardare avanti, verso i posteri» (Edmund Burke, 1790).

La lungimiranza «bifronte», di cui abbiamo oggi assolutamente bisogno, vive il presente, consapevole del passato, per costruire il futuro. Essa è la materia prima di cui furon fatte le antiche nozioni di bonum commune, di publica utilitas: nozioni che sempre, in modo più o meno esplicito, si sono riconnesse al grandioso antefatto del diritto romano, spesso richiamato nei provedimenti dei papi [...]. Citerò qui un esempio solo, ma influentissimo, la Costituzione apostolica Quae publice utilia et decora di Gregorio XIII (1574), che sottopose a rigoroso controllo l’attività edilizia privata proclamando l’assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sull’avidità (cupiditates) e sui profitti (commoda) dei privati. Di qui alla Costituzione apostolica Pastor bonus (1989) nella quale Giovanni Paolo II insiste su termini come Patrimonium, cura (cioè tutela) [...], corre un filo di continuità ben riconoscibile. Ne indicherò per riassunto un solo altro momento, il Chirografo di Pio VII del 1802, ispirato da Carlo Fea, allora commissario pontificio delle Antichità, non senza l’influsso di Antonio Canova [...]. A Fea risale anche (nel 1806) l’idea di richiamare la lunga tradizione di norme pontificie su monumenti e antichità [citando] provvedimenti di Pio II, Sisto IV, Leone X; e gli stessi princípi del Chirografo vennero poi sviluppati e resi ancor più dettagliati e organici, sotto lo stesso papa, con i famosi editti del cardinal camerlengo Bartolomeo Pacca nel 1819-20.

Si impone una riflessione sulle date: il Chirografo del 1802 segue di pochi anni la spoliazione di opere d’arte che Roma aveva subito dai Francesi; gli editti Pacca vengono pochi anni dopo che, sconfitto Napoleone, la Francia fu obbligata da Inghilterra, Prussia, Austria e Russia a restituire le opere depredate (inviato del papa a Parigi fu Canova). In altri termini, il doppio trauma della cessione e della restituzione dei capolavori di Roma funzionò (nel 1802 e nel 1819) come stimolo alla focalizzazione e alla presa di coscienza, e indusse a dare maggior coerenza alla tradizione di tutela.
Esempi e precedenti storici di tal fatta sono utili a richiamarci alla necessità di coltivare «lo sguardo di Giano», una lungimiranza bifronte. Fra passato e futuro, infatti, non c’è nessuna contraddizione [...]. Perché, se interroghiamo la lezione che viene dal passato e le urgenze che incombono dal futuro, la risposta è la stessa: non c’è salvezza se la nostra volontà generale non saprà riaffermare con forza l’assoluta priorità del bene comune come finalità imprescindibile delle comunità umane: spina dorsale di una cultura della cittadinanza di cui dobbiamo in ogni modo recuperare la traccia e il bandolo.

Su questa linea le istituzioni culturali, e fra queste in primissima linea i musei, hanno un ruolo insostituibile nella formazione, trasformazione e alimentazione della memoria culturale come serbatoio di energie per la vita sociale, economica, civile, religiosa delle comunità.

Un ruolo, quello dei musei, che deve necessariamente adottare, esso stesso, uno «sguardo di Giano», utilizzando al massimo le conoscenze accumulate e le possibilità offerte dalle nuove tecnologie [...]. La [...] conservazione preventiva va vista in questo quadro di riferimento, ma ha anche coordinate più specifiche della professione museale, fra le quali una, essenziale: l’insistenza, e vorrei anzi dire l’apostolato, sulla conservazione programmata del patrimonio culturale, per come propugnata strenuamente da Giovanni Urbani, che in Italia fu grande e indimenticato direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro. Di quel suo acuto argomentare vorrei qui ricordare solo un punto, lo strettissimo rapporto fra le pratiche di conservazione preventiva e le politiche di pubblico investimento. Secondo Urbani, «la tutela del patrimonio culturale è purtroppo fatta propria da gruppi troppo ristretti, e troppo poco influenti sul piano dell’economia, per avere nell’immediato effettive possibilità di prevalere su scelte ad essa contrastanti o anche solo indifferenti. [Anche se] teoria e pratica delle decisioni pubbliche [dovrebbero essere ispirate al] principio secondo il quale progresso e sviluppo non dipendono solo dalla dinamica delle forze economiche, ma anche, in misura in ultima istanza prevalente, dalla considerazione di ciò che giova all’uomo».

Insomma, secondo Urbani, una concezione «stretta» e meschina dell’economia, fondata solo sulla logica dell’immediato profitto, finirebbe col condannare senza appello il patrimonio culturale. [...] Perciò, scrive Urbani, il patrimonio culturale così inteso finisce con l’essere marginalizzato, ricadendo più o meno interamente in un’«economia di sovvenzione». Inoltre, «resta il fatto che è assai difficile distinguere un intervento di sovvenzione “idealmente” utile e giustificato, da uno puramente ostentatorio o oblativo. Col risultato che sarà considerato utile e giustificato sempre e solo l’intervento minimo».

Secondo Urbani, è da una concezione come questa che nasce la pratica dell’attività di restauro vista meramente come riparazione terapeutica, occasionale e desultoria, dei guasti: guasti che non si sarebbero prodotti se quel monumento, quell’affresco, quel quadro, fosse stato tenuto sotto osservazione, e assoggettato periodicamente a piccoli interventi di manutenzione preventiva. Nasceva da qui la proposta più importante di Giovanni Urbani, il suo discorso paradossalmente contro il restauro, ma in favore della conservazione programmata.

Perciò egli amava parlare di logica industriale della produttività applicabile all’attività conservativa: «Bisogna convincersi che la chiave del problema sta nel creare le condizioni che favoriscano il passaggio dell’attività conservativa dall’attuale stato di attività marginale sul piano produttivo, a una fase di sviluppo che non può essere definita altrimenti che come industriale. [...] L’essenza dell’industria, prima che a quella delle macchine, risponde alla logica della produttività: che sta semplicemente nel fare in modo che vi sia un rapporto razionale ed economicamente conveniente tra le cose da produrre ed i mezzi necessari per produrle». L’orizzonte di Urbani, in questi discorsi, era il patrimonio culturale diffuso nell’intero territorio italiano: dove l’intimo legame contestuale che fa del territorio e dell’ambiente (città, campagna, paesaggio) un continuum inscindibile da tutelare nel suo insieme era visto non come un peso fastidioso, ma come l’innescatore di meccanismi di sviluppo civile ed economico.
I grandi musei, in quanto musei «dei grandi numeri» (di opere conservate e di visitatori), hanno una responsabilità particolare in tal senso, perché attraggono l’attenzione anche dei più distratti fra i politici ed economisti; ma proprio per questo i grandi musei devono saper argomentare in favore del significato non solo astrattamente culturale, ma concretamente etico, politico ed economico delle pratiche di conservazione preventiva, che andrebbero ovviamente impiantate ed estese anche ai musei medi e piccoli, nonché al patrimonio culturale diffuso.

È anche per questo che i grandi musei hanno, oggi più che mai, la responsabilità di inventare e sperimentare sempre nuove e più avanzate strategie di gestione del proprio patrimonio, messo a rischio anche, paradossalmente, proprio dall’importanza e dal successo dei musei stessi, dai milioni di visitatori che li affollano e che sono essi stessi una fonte di rischio per il patrimonio stesso. [...] Lo «sguardo di Giano» [...] ha anche una dimensione etico-politica che travalica i muri perimetrali del museo, puntando sul diritto delle generazioni future di ereditare da noi il patrimonio che abbiamo ereditato dai nostri padri. Perciò puntare sulla conservazione preventiva vuol dire, al tempo stesso, affermare il ruolo e la centralità del museo come luogo di riflessione non solo sulla memoria storica, ma sulla costruzione del futuro.

Il testo è la sintesi dell’introduzione al convegno «La conservazione preventiva nei grandi musei. Strategie a confronto» curato il 12 ottobre ai Musei Vaticani da Settis e dalla direttrice Barbara Jatta.

 

L'incendio occorso il 3 settembre al Museo Nazionale di Rio de Janeiro

Salvatore Settis, 23 novembre 2018 | © Riproduzione riservata

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