Perrella silurata e «sotto choc»

Nominata nel 2018 alla direzione del Centro Pecci di Prato, Cristiana Perrella è stata licenziata venerdì pomeriggio in modo del tutto inatteso dal nuovo Cda guidato da Lorenzo Bini Smaghi

Cristiana Perrella @ Okno Studio
Laura Lombardi |  | Prato

Quando la sera dell’8 ottobre è arrivata la notizia lo stupore è stato notevole: Cristiana Perrella silurata, ovvero licenziata, rimossa dal suo incarico da un giorno all’altro dalla direzione del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato del quale aveva assunto la guida nel 2018. La notizia ha sconcertato molti per due motivi.

Il primo è che l’operato di Perrella (Roma, 1965) era parso dare un indirizzo preciso al museo come centro anche di ricerca ben aggiornato sulle ultime tendenze della contemporaneità (e con un panorama ampio di proposte, da Jeremy Deller a Luca Vitone, da Chiara Fumai a Julian Rosenfeld, da Jacopo Benassi a Adrian Paci, da Simone Forti a Marcello Maloberti, da Giorgio Andreotta Calò a Sara Tirelli e Elena Mazzi, da Gianni Pettena a Eva Marisaldi e a Rirkrit Tiravanija, senza contare mostre collettive come quella «The missing planet» legata alle collezioni del museo ), ma al tempo stesso radicato alla realtà del territorio con progetti legati al tessuto, al design e impresa per giovani talenti etc....

Il secondo è che un licenziamento in tronco (Cristiana Perrella ha appreso la notizia dal comunicato stampa del museo diffuso sui social mentre era in treno per Roma) potrebbe esser motivato solo da un grave e improvviso danno al museo e non da un tipo di gestione non condivisa dal Cda del Centro, presieduto da Lorenzo Bini Smaghi. Quest’ultimo motiva l’improvviso licenziamento come risposta al non rispetto di un accordo preso alcuni mesi fa. Chiediamo a Cristiana Perrella, sotto choc ma confortata dalla solidarietà del mondo dell’arte contemporanea non solo italiana, la sua versione dei fatti.

Era consapevole di non piacere al nuovo Cda?
Io sono stata nominata quando il Cda era diretto da Irene Sanesi, con una commissione formata da Gabriella Belli, Tomaso Montanari e Alessandro Rabottini. Poi è subentrato il nuovo Cda, composto quasi esclusivamente da uomini (e senza la presenza di un consigliere della Regione, peraltro), che mi ha espresso la volontà di preferire per il centro mostre da grandi numeri, insomma modello Palazzo Strozzi, senza considerare che il Pecci è un museo e non un centro espositivo come Strozzi, e che non è ubicato in pieno centro di Firenze. Il Centro Pecci si trova in un luogo nel quale bisogna scegliere di andare ed è per questo che io ho voluto dare al museo un taglio non statico ma dinamico, più sofisticato, che facesse coesistere nello stesso spazio progetti diversi. Ad esempio, la mostra di «Formafantasma», che univa il tema del design a quello della sostenibilità, la mostra di Chiara Fumai e quella di Simone Forti, radicata nel territorio con gli archivi della famiglia Forti e le visite alla Fabbrica Forti.

Il presidente Bini Smaghi parla di un accordo da lei non rispettato.
Non c’era nessun accordo. Le condizioni di un mio eventuale recesso anticipato, che mi era stato chiesto e che sarebbe comunque dovuto compiersi dopo un anno, dunque ad aprile, erano ancora da definire e in ogni caso condizionate a un’evoluzione dei rapporti serena e al mantenimento di rigorose condizioni di riservatezza, presupposti e condizioni che il Consiglio non ha rispettato. È stata indetta una procedura a mia totale insaputa mentre stavo lavorando. E lo dimostra quel che afferma Bini Smaghi, ovvero che il nuovo direttore sarà in carica da dicembre. Il rapporto tra il rinnovo triennale del contratto (che appunto mi era stato fatto) ed eventuali miei impegni che lo contraddicono sarà comunque questione valutata dai nostri legali, come la grave e palese violazione del mio contratto, data la sua risoluzione immediata senza giusta causa e danno reputazionale.

Pare ravvisarsi anche un danno al museo, con un’immagine ora molto indefinita e indebolita.
Il Centro subisce un danno, perché viene trattato come proprietà personale da chi doveva amministrarlo, senza alcuna cognizione delle conseguenze provocate dalla violenza delle modalità di gestione di un passaggio tanto delicato. Ed è triste che si faccia questo in un museo che aveva faticato tanto a riemergere dopo la crisi provocata dalla chiusura, sempre problematica, della precedente direzione di Fabio Cavallucci e che ha una storia di discontinuità tanto marcata. La reputazione del Centro è un bene pubblico, che abbiamo tutti costruito con tanto lavoro, fatica e uso delle risorse a disposizione (poche!), posizionando il museo come autorevole in Italia e internazionalmente, tanto da coprodurre progetti con istituzioni come la Serpentine, il Centre d’art Contemporain di Ginevra, il MaXXI e richiamare molti giornalisti. La ritengo una responsabilità grave, e una incapacità politica a esprimere una visione che lascia davvero senza parole. Sono confortata dalla solidarietà che mi circonda in queste ore, ma resto sotto choc per lo spreco di tutta l’energia che io, il team del museo, gli artisti , gli sponsor abbiamo dedicato al Centro Pecci in questi quattro anni. Avevo anche anticipato i tempi per realizzare le nuove aule di didattica, secondo il progetto di riapertura di spazi e funzioni dedicati soprattutto al pubblico del territorio. Il problema è che il Centro Pecci vuole essere un progetto imprenditoriale e non culturale e non ha la solidità di una realtà come ad esempio il Castello di Rivoli, che ha saputo conservare una sua identità ben precisa e rafforzarla.

Ma non poteva cercare di andare anche incontro ai desideri del nuovo Cda? Magari una mostra più di cassetta alternata a progetti di ricerca?
Con quali soldi? Il presidente Bini Smaghi ha affermato su «Repubblica Firenze» che è compito della direzione artistica fare fundraising. Ma un Cda come l’attuale era stato scelto proprio per portare risorse al museo. In quasi due anni di mandato su tre, invece, non ha portato nulla. Io, con il team del museo, ho portato tutto ciò che ha permesso di realizzare la nostra programmazione: sponsor, donor, fondi generati dalla vittoria di bandi perché i fondi pubblici coprono solo la gestione ordinaria del museo. Ma i grandi sponsor, che entrino magari nella governance del museo, come Enel con il MaXXI a Roma, quelli è il presidente, o la politica, che li deve portare. Il Cda tiene probabilmente in serbo le cartucce per il direttore che sceglierà. Ma allora mi chiedo: perché mi hanno rinnovato il contratto? Perché eravamo nel mezzo del Covid-19 e avevo dimostrato di essere brava a gestire le difficoltà del museo in quel frangente (ero stata d’altronde scelta anche per il mio curriculum con tutti bilanci all’attivo nella mia carriera), per farmi fuori appena la crisi pandemica fosse stata alle spalle e magari ci fossero all’orizzonte anche dei fondi del Pnrr? Quanto alle mostre io avevo proposto una mostra di Cindy Sherman in partenariato con la Fondation Vuitton, con un taglio più specifico per il Centro Pecci. Avevo bisogno di 400mila euro in più e mi è stato detto che non sapevano dove trovarli. Ma allora perché un banchiere internazionale alla direzione del Cda? Non credo sia stato scelto per il suo ruolo nel mondo dell’arte e della critica contemporanea.

In dicembre, come annunciato, sapremo il nome del nuovo direttore: al lavoro, ha spiegato Bini Smaghi, c’è un cacciatore di teste e una commissione di selezione formata da Bruno Corà, Guido Guerzoni e Lorenzo Sassoli de Bianchi. Ha idee di quali nomi possano essere in ballo?
Certo che li ho, ma non voglio dirlo. Basta guardarsi un po’ intorno, vedere chi ora è senza lavoro, o ha terminato il suo mandato. Sono convinta che ora i soldi per aiutare il nuovo direttore verranno fuori.

Leggi l'intervista a Lorenzo Bini Smaghi

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